Il reato di calunnia (art. 368 c.p.) è una fattispecie di “delitto” particolarmente odioso.
Esso ricorre quando si incolpa falsamente qualcuno di un reato - con atto rivolto alle pubbliche autorità - inducendo nei suoi confronti un’indagine o un procedimento giudiziario che potrebbe sfociare in una condanna penale, qualora la falsità dell'accusa non dovesse essere scoperta.
Le false accuse di violenza sessuale o di violenza domestica, ad esempio, sono per l’appunto reati di calunnia.
Si tratta di atti di violenza sordida nei confronti di chi la subisce, assai più devastanti sul piano psicologico, sociale e materiale di altre forme di sopraffazione, in quanto riduce la persona all'impotenza davanti alla “Giustizia” ufficiale, la quale si rovescia, con un effetto perverso, nel suo esatto contrario, ergendosi contro l’individuo come un Moloch ciecamente punitivo e moralmente ingiusto.
Il caso di Carlo Parlanti, in materia, insegna quali possono essere le conseguenze di un’azione calunniatoria che non venga riconosciuta come tale dalle autorità preposte. La sua intera esistenza è stata violentata, per una falsa accusa di stupro mossa ai suoi danni, portandolo ad un'estraniazione dal consorzio civile delle “persone perbene” che, da circa 7 anni, in carcere, lo sta privando dei beni più preziosi della vita: salute, libertà, onore, fiducia.
Eppure, nonostante l’inoppugnabile gravità della condotta del calunniatore (o della calunniatrice, come più spesso si verifica) nel codice penale italiano il reato di calunnia non è annoverato neanche tra i delitti contro la persona (Tit. XII) ma tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia (Tit. III).
Secondo una concezione vagamente sovietica del bene da sottoporre a tutela giuridica, infatti, il legislatore ha ritenuto prevalente il bene burocratico dell’azione amministrativa – il corretto funzionamento della macchina giudiziaria – persino rispetto al valore costituzionalmente garantito della libertà personale.
Come a dire che l’apparato pubblico viene prima dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali.
Una serie di interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali non sempre convergenti hanno, inoltre, reso l’applicazione dell’istituto in questione incerto, ondivago e, in alcuni casi, persino disatteso, tanto da spingere alcuni a parlare di “interpretazioni aberranti” non infrequenti.
A parziale conferma di queste tesi va, ad esempio, osservato quanto riportato dall'AMI intorno al fenomeno delle false accuse, che ricorrono con allarmante frequenza nei casi di separazione, configurando una vera e propria emergenza sociale e giudiziaria: «E’ certificato che nel 75% dei casi le denunce penali nei confronti del coniuge sono palesemente false, infondate e strumentali all’ottenimento di immediati risultati nelle cause di separazioni e divorzi», dice il presidente nazionale dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, avv. Gian Ettore Gassani, prendendo spunto dalla sentenza del Tribunale di Varese che ha condannato una donna separanda ad euro 10.000 per ‘abuso di processo’.
Sennonché, piuttosto che parlare di fattispecie tipiche della calunnia, si è arrivati addirittura a configurare una diversa tipologia di reato - lo "stalking giudiziario" - pur di non dare applicazione ad una norma che, laddove applicata secondo la lettera, comporterebbe pesanti condanne in luogo delle miti sanzioni collegate a comportamenti molesti.
Questo, infatti, il tenore letterale della norma:
Art. 368.Non dispongo di statistiche ufficiali sull'effettiva applicazione dell'istituto normativo, per le quali servirebbe peraltro una faticosa ricerca mirata, data la complessità e l'eterogeneità dei fatti giudiziari.
Calunnia.
Chiunque, con denunzia, querela , richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all'autorità giudiziaria o ad un'altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni.
La pena è aumentata se s'incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un'altra pena più grave.
La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all'ergastolo; e si applica la pena dell'ergastolo, se dal fatto deriva una condanna alla pena di morte (pena abolita).
Annamaria Franzoni |
Abbiamo, infatti, notizia di quale sia stata la nuova condanna subita da Annamaria Franzoni – tetra protagonista del delitto di Cogne, secondo la giustizia togata – per il reato di calunnia ai danni del vicino di casa della famigerata villetta, da costei indicato sulle prime come l’omicida del povero Samuele.
Un anno e quattro mesi di detenzione, a fronte di una richiesta della procura di due anni e tre mesi.
Ripeto, l’accusa rivolta dalla donna al vicino era quella di essere l’assassino del figlio; accusa che, poi, si sarebbe rivelata infondata ma che, comunque, avrebbe significato per quest’uomo – se la vicenda giudiziaria avesse preso un altro corso – una pena non inferiore agli anni 21 (art. 575 c.p.).
Naturalmente, non conoscendo le carte processuali non possiamo sapere cosa abbia motivato una sentenza tanto "indulgente" nei confronti della Franzoni.
Ciò che, però, sappiamo, è che la pena irrogata appare decisamente inferiore alla cornice edittale della fattispecie (quantomeno da 4 a 12 anni).
Resteremo, inoltre, ad aspettare il verdetto che riguarderà Amanda Knox, anche lei imputata per calunnia nei confronti di alcuni poliziotti (la calunnia sembra essere una strategia tipicamente femminile) accusati di averla maltrattata nel corso di un interrogatorio.
Non abbiamo, infine, notizia delle conseguenze che dovrebbero riguardare la ragazza spagnola la quale, come alcuni ricorderanno, non ha esitato a denunciare un falso stupro per coprire le sue "avventure sessuali" in pieno centro a Roma (anche se, in questo caso, si tratterebbe di simulazione di reato); o che dovrebbero sicuramente riguardare la ragazza nomade (e ladra) che aveva incolpato alcuni carabinieri di stupro dopo un arresto.
Dalle scarne, occasionali informazioni che si possono attingere intorno alla questione sembra, a conti fatti, che il reato di calunnia trovi scarsa e discutibile applicazione nei tribunali italiani.
Tutto questo è inaccettabile, in quanto sottostima la gravità di un fenomeno che, invece, si va amplificando - forse anche per il ridotto regime sanzionatorio - e che va trasformando le relazioni umane in relazioni giudiziarie, con un ricorso ossessivo e strumentale all'apparato poliziesco soprattutto da parte femminile.
Sembrano, a questo proposito, confermate anche le osservazioni formulate da S. Zecchi sul Giornale del 25 luglio scorso: «Il modo di procedere segue un copione altrettanto violento quanto la presunta violenza denunciata: intanto si mandi in galera l’accusato, lo si dà in pasto all’opinione pubblica, poi si vedrà se è davvero colpevole. Sembra quasi che il giudice debba fare ammenda di un atavico senso di colpa, per il quale la nostra civiltà non avrebbe sufficientemente protetto, nella sua storia millenaria, donne e bambini. Insomma, meglio credere sempre a un bambino o a una donna: se sono bugiardi poi si vedrà.»
Per tutte le considerazioni sinora svolte, pur nella loro incompletezza, sembra necessario invocare la corretta applicazione del reato di calunnia, ogniqualvolta esso venga perpetrato, e che la norma rimanga cogente in tutte le situazioni in cui una falsa accusa può devastare l'esistenza di chiunque, assicurando la condanna di chi si avvale di questi mezzi criminosi.
Sarebbe, poi, necessario un inasprimento delle pene previste, al fine di introdurre elementi sanzionatori di deterrenza rispetto ad un fenomeno che va assumendo connotazioni aberranti e moralmente sottostimate.
Il secondo sasso nello stagno segue il primo.