Cultura antimaschile e paternità forzate





I torti e le umilianti sperequazioni che gli uomini sono costretti a subire nei tribunali civili (e spesso anche penali) in sede di separazione o divorzio rappresentano, ad oggi, la parte più esposta e socialmente evidente di una diffusissima cultura antimaschile che permea i rapporti umani, giuridici e politici prevalenti.
Come già evidenziato in diverse occasioni, questi fenomeni sono tuttavia solo la punta di un iceberg, sotto la linea di galleggiamento (e di visibilità) del quale si nasconde la parte più corposa ed ingombrante dei principi che le ideologie politiche ostili al “maschio” (femminismo, culturalismo ed egualitarismo su tutte) hanno riversato nella cultura corrente, nel diritto codificato e nelle pratiche usuali di common law.
Se, infatti, la negazione dei diritti alla paternità sta alimentando, in concreto, un malessere sociale sempre più ampio e numericamente significativo, non altrettanto può dirsi, ad esempio, per la situazione diametralmente opposta: ossia, la possibilità di esercitare il diritto al disconoscimento di paternità in tutti quei casi in cui la paternità stessa è dubitabile se non, addirittura, palesemente falsa.
Oppure - caso meno ai limiti ma non per questo meno rilevante - quando il singolo non ha scelto di diventare padre e non si sente pronto per questa delicata responsabilità ma, a differenza di quanto è concesso alle donne con il c.d. “parto anonimo”, non può sottrarsi in alcun modo alla paternità non voluta.
In realtà, queste situazioni – più frequenti di quanto non si pensi – arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica quasi esclusivamente quando ad esserne coinvolti sono personaggi di grande popolarità, come gli attori o i calciatori.
E’ questo il caso della diatriba innescatasi sul noto caso Balotelli-Fico, che sembra ripercorrere lo stesso copione mediatico in cui finì coinvolto, a suo tempo, un campione altrettanto “trasgressivo” e discusso come Diego Armando Maradona.
Trattandosi di persone facoltose e socialmente privilegiate, la percezione generale è che la tegola non faccia poi così male e, quindi, l’attenzione verso i principi di equità in gioco viene automaticamente distratta verso il puro e semplice pettegolezzo da parrucchiera.
Eppure, situazioni di questo tipo possono investire - ed investono - qualunque uomo, di qualunque estrazione sociale e con qualunque disponibilità economica tra le mani, anche quando non se ne dispone affatto; si tratta di principi giuridici ed etici che riguardano tutti, non solo i paperoni del calcio, ma questo non viene evidenziato.
Bene ha fatto, dunque, Marco Faraci a riproporre la questione di ordine generale prendendo a prestito, con un articolo specifico, la vicenda personale di Balotelli per estendere le relative considerazioni sino a riconoscerne all’interno la negazione dei «diritti riproduttivi» maschili come presupposto culturale e giuridico vigente.
A qualunque donna è consentito ope legis disconoscere il figlio appena nato lasciando che venga dato in adozione (pare siano circa 400 l’anno i casi su circa tremila abbandoni materni), mentre a qualunque uomo questa possibilità è giuridicamente preclusa, tranne casi eccezionali.
Se a ciò si aggiunge l’assoluta irrilevanza della figura e della scelta maschile in materia di aborto, lo sbilanciamento e la sperequazione dei diritti riproduttivi tra maschi e femmine ha del clamoroso, quanto e molto più delle problematiche dei padri separati.
Eppure, questa generale cittadinanza di serie B rimane confinata sotto la linea di galleggiamento dell’evidenza - come si diceva - nell’oblio e nella sottovalutazione da parte dello stesso mondo maschile, che se ne accorge solo quando ne subisce individualmente gli effetti.
Ci sarebbe dunque poco da aggiungere a quanto efficacemente sostenuto da Faraci nel merito della questione, se non fosse che, per uno strano gioco di casualità, non stessi elaborando in questi giorni analoghe considerazioni sulla base di una recente sentenza della Corte di Cassazione inerente la stessa materia.
In quest’altro caso si tratta della domanda di disconoscimento di paternità presentata da un uomo che aveva scoperto, in epoca successiva alla nascita di una bambina, di non esserne il vero genitore, in quanto la moglie si era sottoposta a fecondazione eterologa nel contesto delle procedure di fecondazione assistita a cui la coppia si era da tempo rivolta.
Va ricordato che la fecondazione eterologa - ossia, resa possibile da un donatore anonimo, terzo alla coppia - è espressamente vietata dal nostro ordinamento, ex articolo 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e pur non potendosi considerare, nel caso di specie, una forma di infedeltà muliebre è qualcosa che comunque gli assomiglia molto.
Inoltre, a quanto si legge nella sentenza n. 11644 del 23 febbraio scorso, il padre pro-forma sarebbe venuto a conoscenza dell'iniziativa unilaterale della donna in tempi successivi al parto, a seguito di "voci" che lo avrebbero indotto ad accertare, tramite specifici controlli clinici, la propria sterilità assoluta.
Appurato di non poter essere il padre che avrebbe voluto essere, l'uomo si è visto contestare, in giudizio, il mancato rispetto dei tempi burocratici per l'esercizio del disconoscimento, equiparato con un'alchimia interpretativa della Cassazione alle ipotesi di decadenza dall'azione di disconoscimento previste, dall'art. 244 del codice civile, in un anno.
Al danno concreto per l'uomo deve aggiungersi la beffa più generale, per cui dal Sole24ore si è salutato questo pronunciamento come un ampliamento dello spettro normativo delle ipotesi di disconoscimento di paternità, tra le quali ora deve aggiungersi anche quella della fecondazione eterologa per il padre inconsapevole.
Poco importa, a quei commentatori, che le contorsioni giuridico-burocratiche della Cassazione abbiano prodotto, per l'ennesima volta e nonostante le affermazioni di principio astratte, una vittima delle paternità forzate, di volta in volta estorte per via giudiziale.
Su quell'uomo peserà per tutta la vita una paternità non voluta perché non vera, perché così hanno deciso i tribunali del "regno".
In nessuna parte della sentenza, ad un'attenta lettura, viene presa in considerazione la posizione materiale, psicologica ed esistenziale di quell'uomo, anche alla luce del fondamentale principio di ragionevolezza e dei criteri etici su cui si fonda questo principio (per non voler parlare di "diritto naturale").
E se tutto questo non è il frutto di una cultura antimaschile che ritiene i diritti e gli interessi maschili di rango inferiore a quelli femminili, sacrificabili ed irrilevanti sino al pratico annullamento, non saprei come diversamente descriverlo.


Annotazione a margine
Non mi trovo molto d'accordo, sia detto comunque marginalmente, sull'affermazione di Marco Faraci secondo la quale «per un bambino non esiste un diritto a prescindere a nascere con due genitori» perché, invece, ritengo che quel "diritto" esiste e sarebbe anche cogente, a mio modo di vedere.
Non è un diritto nel senso tecnico del termine e lo possiamo chiamare anche diversamente - vantaggio, possibilità più favorevole, corrispondenza ai bisogni infantili, naturalezza della situazione, completezza dell'habitat familiare o come si vuole - ma esiste in tutte queste denominazioni che, pur non potendosi incasellare all'interno di forme prescrittive, definiscono lo specifico interesse del nascituro.
Una cosa è stabilire modelli giuridici fondati sull'equità, altra cosa è stabilire l'insussistenza di situazioni ottimali.
Che continuano a sembrarmi le migliori, soppesati tutti gli interessi in gioco.