Su Lady Gaga (e non solo) hanno ragione i musulmani





So bene che già la sola lettura del titolo potrebbe procurarmi diverse inimicizie, accuse di fondamentalismo, di moralismo bigotto o di "intelligenza" col nemico talebano dell'Occidente.
Di quelli che si accontentano di leggere i titoli saltando i contenuti, detta con grande franchezza, mi interessa poco; la superficialità che vedo e sento impazzare in giro come un atteggiamento di tendenza - fashion, per così dire - comincia a darmi seriamente l'orticaria.
Agli altri cercherò di offrire uno spunto di riflessione che ognuno potrà risolvere a modo suo, ma ragionando su un fatto di cui (questo l'intento) si devono e possono dare letture diverse senza andarsi ad appiattire supinamente nel luogo-comunismo predominante.
La notiziola di cui voglio parlare è di quelle apparentemente futili, frivole ed insignificanti per la nostra vita associata.
In realtà a me sembra che siano proprio notizie di questa natura ad avere un'importanza capitale per capire chi siamo e dove andiamo: ecco di cosa stiamo parlando.
Il concerto della pop-star Lady Gaga, già programmato a Jakarta per il prossimo 3 giugno, è stato annullato dalle autorità locali in quanto si tratterebbe di uno spettacolo «incompatibile con la cultura e i valori morali» dell'Indonesia, paese a forte maggioranza islamica (87% circa della popolazione) e nazione musulmana più popolosa del mondo (quasi 240 milioni di anime).
Questo il fatto.
Per capire chi sia Lady Gaga e che genere di spettacoli proponga basta andarsi a gustare, navigando in rete, una carrellata di immagini di cui qui si offrono alcuni significativi frammenti.
Le esibizioni ostentatamente sessualizzate e trasgressive della cantante, che possiamo apprezzare già in queste poche foto, sono state dichiarate «haram» - ossia, proibite - dal Consiglio degli Ulema indonesiani, in quanto amorali e riprovevoli.
Traducendo questa presa di posizione in un linguaggio a noi più congeniale, si potrebbe dire che l'espressività della pop-star insiste prepotentemente sulla sfera istintuale del pubblico, solleticandone la parte pruriginosa in modi e forme che, per usare un eufemismo, potremmo considerare di valore artistico e culturale non propriamente eccelso.
Insomma, sollecita i cosiddetti "bassi istinti".
Secondo quanto riportato ancora dalla testata on-line "Asianews", la decisione ha comunque scatenato polemiche, anche tra i parlamentari indonesiani, che hanno visto contrapporsi seccamente il fronte interno del fondamentalismo islamico tradizionale alle forze sociali cosiddette progressiste.
In questo senso, sembra riproporsi anche lì uno schema generale che si va gradatamente affermando nella logica globalizzante di un identico pensiero mondializzato e ridotto ad ancestrale forma binaria: modernismo contro tradizionalismo, nuovo contro vecchio, futuro contro passato.
Nel caso in questione, un passato rappresentato dal tradizionalismo islamico versus un futuro rappresentato da quelle fasce giovanili che, com'è ovvio, risultano affollate di ammiratori di Lady Gaga e di entusiastici fruitori del suo "messaggio culturale".

Tornando al nostro modo occidentale di ragionare, tuttavia, intorno alla questione si pone un problema di difficile composizione che coinvolge, al fondo, due principi in conflitto tra loro.
Da un lato il diritto di espressione che, indipendentemente dal suo valore artistico e dai contenuti, riguarda la libera manifestazione di un modo di essere, di fare, di comunicare ed anche di influenzare gli altri con la propria espressione; si tratta del principio della libertà individuale che, secondo una nota formula nata sulle e nelle suggestioni sessantottine, potremmo riassumere nel noto slogan "vietato vietare".
Dall'altro, un principio di coesione sociale che necessita, per essere realizzato compiutamente e non solo in forma nominativa, del sacrificio di alcune libertà individuali in vista di un superiore bene comune; ciò che per brevità possiamo definire "i divieti".
Senza divieti non potrebbe esistere alcuna società, perché sarebbe la guerra di tutti contro tutti, e questo è tanto vero nelle società islamiche quanto in quelle occidentali.
Ma con una fondamentale differenza: mentre qui da noi, come da loro, riusciamo a convivere abbastanza tranquillamente con la più ampia gamma di divieti codificati che si conoscono - divieto di uccidere, di rubare, di arrecare danno al prossimo, di andare contromano, di evadere le tasse eccetera - non altrettanto riusciamo a fare con i divieti che riguardano la sfera sessuale.
Non solo, ma quanto più ci sentiamo liberi di esprimere, esporre ed estendere le nostre libertà civili e sessuali tanto più ci sentiamo in democrazia.
Ma è proprio su questo punto che nascono le più forti perplessità sulla concezione di democrazia sottostante, dove con questo termine sembra doversi intendere l'abrogazione definitiva di qualunque idea di peccato o di comportamento moralmente deteriore.
Certo, a nessuno sfugge la fondamentale differenza che c'è tra reato e peccato, tra democrazia e teocrazia, tra pubblico e privato.
Eppure, a ben guardare, neanche qui da noi i divieti riguardano esclusivamente i delitti che, al contrario, rappresentano un insieme abbastanza limitato rispetto alla imponente mole di proibizioni a cui ci sottoponiamo, di buon grado o meno, tutti i giorni.
Dal divieto di fumo al divieto di transito, dal divieto di calpestare le aiuole al divieto di balneazione, dal divieto di disperdere i rifiuti nell'ambiente al divieto di parcheggio, dal divieto di guidare dopo aver bevuto al divieto di accesso in un'infinità di luoghi, la nostra vita quotidiana è letteralmente scandita da una mole massiccia di delimitazioni e proibizioni assai più condizionanti nella loro immediatezza di qualunque norma del codice penale.
Non solo, ma una sorta di moralità surrogata particolarmente intransigente, traslata dalla sfera etica a quella burocratica e viceversa, spinge molti a guardare con particolare sdegno moralistico ai comportamenti pregiudizievoli per l'ambiente; abbattere degli alberi per farne terreno coltivato o edificabile è considerato un attentato alle virtù del pianeta, la caccia è una bestemmia e il dispendio energetico un crimine contro l'umanità.
Però, concezioni tanto fondamentaliste del bene comune, tali da condizionare i comportamenti quotidiani di tutti, decadono improvvisamente nella sbornia libertaria quando ad essere messo al centro dell'attenzione è il comportamento sessuale e, in modo particolare, il comportamento femminile in questa sfera.
La libertà di provocare, di denudarsi, di rendersi oggetto del desiderio e di speculare sul proprio capitale erotico sembrano essere diventati gli unici e gli ultimi principi non negoziabili su cui si fondano le nostre libertà democratiche, tanto che nessuno, qui da noi, si sognerebbe mai di proibire le esibizioni di Lady Gaga o delle madonne e madonnine cantanti e ballanti a lei consimili.
Mentre, all'opposto, consideriamo del tutto normale e giustificabile impedire alle nostre gerarchie ecclesiastiche di esprimersi anche su questa materia, con una grottesca inversione di volontà censoria che rende preferibile il messaggio di Lady Gaga a quello di chi coltiva l'idea del bene morale come presupposto ineliminabile del bene comune.
Ci scandalizziamo indignati per il buco nell'ozono e restiamo indifferenti davanti alla pornografia.
Allora, in conclusione, ciò che dobbiamo chiederci razionalmente è se esista un bene comune correlato alla sfera della sessualità che può risultare compromesso dalla più totale assenza di disciplina morale, di regole e anche di divieti, quando questi occorrono.
I musulmani sostengono che quel bene comune esiste e consiste nell'ordine familiare, sociale e psicologico di ciascun individuo, che in quella sfera si realizza; dicono anche che quell'ordine non può essere conservato senza una disciplina generale, benché la loro può sembrare troppo repressiva agli occhi di noi occidentali.
Noi, invece, ci siamo semplicemente liberati del senso del peccato e la chiamiamo libertà, senza accorgerci delle monumentali parzialità e contraddizioni sulle quali si sostiene quest'idea.
Io ritengo che hanno ragione loro.