Burqa




Il burqa nell'opinione pubblica


Lo scorso mese di settembre il Parlamento francese ha adottato, in via definitiva, il provvedimento che vieta di indossare il burqa islamico nei luoghi pubblici, tra le mille polemiche politiche non ancora sopite che, a tutt’oggi, fanno di un indumento femminile delle culture musulmane uno degli strumenti simbolici del c.d. “scontro di civiltà”.

donne con burqa
Nella società francese la questione ha riflessi molto ampi, sia per l’alta percentuale migratoria di origine maghrebina stanziata nelle famose banlieue, sia per essersi imposta all’attenzione dell’opinione pubblica d’oltralpe sin dall’ormai lontano 1989, quando a Creil tre studentesse di fede islamica furono espulse da una scuola per essersi rifiutate di “togliersi il velo”. Presero l’avvio, da quell’episodio iniziale, inesauste polemiche tra sostenitori del multiculturalismo e difensori dei modi di vita occidentali, destinate a propagarsi in altri paesi europei – compreso il nostro - con analoga e perdurante intensità ideologica.
La parte che propriamente ci interessa dell’intera faccenda – al di là della nostra decisa contrarietà a riconoscere validità alcuna ai principi astratti ed improbabili del multiculturalismo – sta nel complesso insieme di valenze che ruotano intorno al burqa, coinvolgendo riflessioni più ampie sulla libertà, sulla moralità e sul significato dell’emancipazione femminile assunto qui in occidente.
Il dato da prendere in esame è quello della contrapposizione tra coloro che vedono nel burqa un precetto di natura etico-religiosa (quindi, uno strumento, peraltro assai rigido, di disciplina morale) e coloro i quali, invece, lo intendono come mero strumento di un universale “dominio maschile” da cui la donna musulmana, a differenza di quella occidentale, non si sarebbe ancora affrancata.

Per districarsi nel contenzioso, occorre intanto osservare che, secondo alcune interpretazioni, una prescrizione di pudicizia e tutela femminile è contenuta nel verso 33,59 del Corano, che recita: “…Oh Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate…”; questa sarebbe, comunque, la giustificazione teologica del chador – velatura del corpo e del capo che lascia scoperto il viso - ma non del burqa, che occulta completamente entrambi.

donne con burqa

Sembra, infatti, sostanzialmente condivisa dalla maggior parte degli islamisti - stando a quanto assevera anche Samir Khalil Samir, padre Gesuita, pubblicista ed islamista di fama internazionale, dalle colonne di Asianews – la convinzione sull’insussistenza di uno specifico precetto islamico per la copertura integrale della figura femminile.

Fatte queste doverose premesse, è da evidenziare, allo stesso tempo, come sia lo stesso Khalil Samir – il quale pure non riconosce alcun fondamento dottrinale all’uso del burqa - a confermare che il suo utilizzo da parte di molte donne musulmane, ben lontano dall’avere salde radici tradizionali nella cultura popolare pan-araba, sembra essere più espressione di un fenomeno di reazione spontanea delle stesse donne islamiche di fronte all’anomia morale dell’occidente, piuttosto che un’imposizione dettata da un qualche “dominio maschile” che non si identifichi, in modo immediato e diretto, con un concetto strettamente inteso di “moralità”.

Scrive, infatti, Khalil Samir riferendosi ancora alla realtà francese: “Coloro che portano il velo integrale (niqab o burqa) non lo fanno per tradizione. Esse sono di solito delle ragazze nate in Francia, oppure delle francesi convertite all’islam […. ]….quelle donne si vestono così per l’ideologia, per sfidare la società occidentale che esse giudicano corrotta […..]…L’esperienza di altri Paesi – penso in particolare all’Egitto, il più grande Paese arabo – è chiarificante: il velo semplice, che nel 1975 era una cosa rara, oggi è divenuto la norma; il velo integrale, apparso verso il 1995 come un fatto eccezionale, oggi è divenuto un fenomeno standard, addirittura banale”.

Il burqa ed il chador avrebbero, in sostanza, preso piede proprio lì dove l’incontro tra Islam e mondo occidentale moderno - determinato sia dal progredire del fenomeno migratorio, sia dagli accresciuti contatti con le popolazioni straniere: ad es. turismo di massa o penetrazioni mediatiche e militari dell'occidente - ha posto a quotidiano confronto due diverse e contrapposte concezioni dei “costumi morali”, lasciando al mondo islamico una scelta forzosa tra l'adeguarsi supinamente agli ideali di indifferenza etica proposti induttivamente dall'occidente o il ritrarsi difensivo nella solidità rassicurante delle proprie tradizioni religiose amplificate, per reazione uguale e contraria, sino all'eccesso.

Una ulteriore conferma a questa interpretazione dei fatti sociali ci proviene, ancora, dallo stesso esperto di cose islamiche, il quale ci ricorda che, nella tradizione passata dei Paesi arabi, l'utilizzo del velo era tutt'altro che diffuso o imposto da un qualunque "dominio maschile", bensì era riservato, come segno di distinzione, alle donne di più alto rango sociale (un segno di patriziato, diremmo noi) ed escluso o malvisto se indossato da donne di bassa levatura.

Sta di fatto, quindi, che pur non potendosi accogliere nella pienezza del suo significato l'ipotesi che l'uso del burqa risponda a dettami precisi della religione islamica, appare, per contro, destituita di qualunque serio e valido fondamento la tesi contraria, secondo la quale esso sarebbe lo strumento di un fantomatico "dominio maschile", universalizzato e complottante, finalizzato a mantenere la donna (islamica, in questo caso) in una condizione di soggezione passivamente subìta ed estranea alle proprie scelte soggettive.

Il conflitto morale


In realtà, nella complessa trama propagandistica con la quale si discute del burqa, l'unica cosa certa è una sorta di equivalenza, implicitamente contenuta nei discorsi ma mai definitivamente esplicitata, tra l'espressione "dominio maschile" ed il complesso dei precetti e delle norme di condotta che, tradizionalmente, identifichiamo con il termine ampio di moralità.
Se, infatti, il burqa non può che apparirci come un inaccettabile confinamento della persona dentro una prigione di stoffa, si tratta anche di interrogarsi e tentare di capire cosa si contrapponga, in termini di costumi morali occidentali, ad una misura tanto drastica e reattiva da risultare quasi una fuga intimorita nella sicurezza dell'invisibilità.

sexy burqa
Non dovrebbe essere difficile riconoscere, sotto questo profilo, come siano intimamente connessi la c.d. rivoluzione sessuale femminista, che ha modificato radicalmente la sfera delle relazioni intime nel nostro mondo (famiglia, sessualità, maternità) con l'erosione, costante e sistematica, di quel sistema di valori morali che erano esemplarmente riassunti nell'ormai desueto termine "morigeratezza"; una parola il cui suono, arcaico e polveroso, risulta tanto stonato alle nostre orecchie da apparirci già, nel suo significato letterale, come un residuato inservibile di vecchi bigottismi da smantellare, piuttosto che un valore del comportamento personale che induce e costruisce rispetto nella vita di relazione.
La libertà femminile è stata declinata, in occidente, in misura predominante benché non esclusiva, come libertà di esibire il corpo; se è vero che accanto a questa libertà delle donne noi oggi ne riconosciamo anche molte altre, è comunque un dato di realtà il fatto che la libertà più praticata, ai più diversi livelli sociali senza differenze significative tra donna e donna, rimane comunque questa.
Del resto, è stata la stessa scrittrice Susanna Tamaro, come abbiamo già visto in questa sede, a riconoscere come il femminismo abbia liberato le donne per renderle "un esercito di perfette barbie tutte uguali", centrate ossessivamente sulla celebrazione del corpo e della bellezza come strumenti di autoaffermazione narcisistica.
E', quindi, questo il valore aggiunto della nostra cultura che definirebbe lo scarto di civiltà tra noi e loro?
E' su tanto poco - la libertà di mettersi in mostra - che si misura il livello di libertà di una società?
Può seriamente il burqa essere considerato il simbolo di un'oppressione maschile se il suo opposto, la nudità del corpo femminile elevata ossessivamente a valore, è ciò che dovrebbe rappresentarne il simbolo liberatorio?
Chi scrive ha, in proposito, seri dubbi.
E' molto più plausibile che queste due estremizzazioni dello scontro di civiltà - che, nel caso femminile, si svolge sempre e comunque sul piano prioritario dell'immagine e non su altro - avrebbero molto più da guadagnare nel riconoscere ragioni e torti reciproci in vista di un possibile riequilibrio comune, senza che l'una pretenda di dare insegnamenti all'altra, aggrappandosi a false mitologie di un indeterminato ed inspiegato "dominio maschile" che vorrebbe spiegare tutto senza spiegare nulla.
Oppure, per concludere, si definisca il dominio maschile per ciò che esso propriamente appare: il sistema di regole morali condivise necessarie a garantire la coesistenza civile, anche nel contesto della vita quotidiana e di relazione.
Il dominio femminile che scaturisce dalla negazione di queste regole non appare, sinceramente, un bene da esportazione.