L'uguaglianza sociale è nemica della democrazia






Prima di commentare le reazioni suscitate dalle insistenti iniziative con le quali la commissaria europea alla Giustizia, Viviane Reding, vuole portare al 40% le quote rosa nei consigli d’amministrazione delle società per azioni pubbliche e di quelle private quotate nei mercati borsistici dei paesi aderenti alla UE, qualche premessa non guasta.
Viviane Reding
Va tenuto presente che dallo scorso mese di agosto è già in vigore, qui in Italia, il famigerato provvedimento Golfo-Mosca (dal nome delle due relatrici della legge 120/2011) che impone nella misura del 30% la "presenza femminile" nei cda in questione, provvedimento che andrà a regime dal 2015 e sin da ora nella misura di un quinto dei consiglieri; ne abbiamo già parlato in altri momenti e suggerisco una rivisitazione retrospettiva di quelle considerazioni alla luce degli attuali sviluppi.
Il testo normativo ha formalmente efficacia decennale (una bizzarria tecnico-giuridica) ma difficilmente si tornerà indietro.
Infatti dall'Europa, come detto, non paghi di questa forzatura si vuole alzare ancora l'asticella - ed anche questo, da qui, è stato previsto e denunciato - dopo di che sarà alzata ancora e ancora sino alla fatidica e artificiosa «uguaglianza di genere» prevista nei trattati.
Si tratta, con ogni evidenza, di misure di ingegneria sociale, finalizzate a modificare d'imperio «la diseguale ripartizione del potere tra i sessi», che tuttavia vengono realizzate in plateale disprezzo di due principi fondamentali delle democrazie liberali: il principio della libertà d'impresa ed il principio del merito individuale.
A questi due valori basilari del pensiero liberale classico, con cui la vecchia e ormai impolverata classe della borghesia riuscì a trasformare pacificamente un ordine sociale ingessato nei diritti di nascita, si contrappone oggi un generico principio dell'uguaglianza sociale, inconciliabile nella sua essenza tanto con il primo, quanto con il secondo di quei valori.
In realtà, in natura l'uguaglianza non esiste, neanche tra i gemelli omozigoti tra i quali c'è sempre quello più intelligente, più estroverso, più dinamico o più intraprendente dell'altro.
Tutto ciò ha delle evidenti ricadute anche sul piano dei rapporti sociali ed economici, dove "l'uguaglianza" - che è un costrutto idealtipico e, in alcuni casi, utopico - per essere conseguita deve essere imposta autoritativamente dal potere politico.
Naturalmente non bisogna confondere il concetto di uguaglianza sociale con quello, politicamente neutro, di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, che è cosa completamente diversa.
Né andrebbe manipolato il concetto di uguaglianza nelle opportunità sociali - una parità che ha senso democratico solo alle posizioni di partenza - con la conta numerica dell'uguaglianza alle posizioni di arrivo.
Ne consegue che se l'uguaglianza sociale deve essere realizzata d'imperio ciò può avvenire solo a prezzo della libertà e della meritocrazia, così come avveniva nella vecchia Unione Sovietica dove tutti erano uguali, statisticamente allineati e ugualmente sudditi di un potere politico onnipotente e padrone, che impartiva ordini sul che fare, che non fare, dove andare e dove non andare, chi essere e chi non essere.
Il fatto che il potere politico nazionale - sollecitato e incalzato dalla tecnoburocrazia europea, e ad essa complice - vada ripristinando "diritti di nascita" che non sono più legati alla casta, al censo o al titolo nobiliare ma al sesso di ciascun individuo è quindi un regresso grave rispetto a quell'ideale democratico che ormai possiamo cominciare a mettere tra le buone cose del passato.
Conforta sapere - a proposito delle reazioni cui si accennava all'inizio - che tra le isolate voci di dissenso rispetto a questa deriva antidemocratica si sia alzata anche quella autorevole di Antonio Salvi, Preside della Libera Università Mediterranea "Jean Monnet" e ordinario di finanza aziendale, il quale con un articolo pubblicato nei giorni scorsi ha definito le quote rosa «una beffa inutile e dannosa», oltre che intimamente illiberale ed autoritaria, argomentando la presa di posizione con ragionati e competenti argomenti di buon senso.
Condivisibilissima soprattutto la sua riflessione generale: «non se ne può più dell'agire politicamente corretto, di comportamenti equi e sostenibili» e, aggiungerei personalmente, del falso mito egualitario.
Ma se da un lato è confortante sapere che le riflessioni critiche e le voci di dissenso sui metodi di «lotta alle disuguaglianze» (un comandamento ad alta digeribilità spirituale) vanno lentamente - ma troppo lentamente - crescendo nella società civile, è del tutto sconfortante osservare come il mondo politico, quasi nella sua interezza, sia completamente immerso in questa grottesca pianificazione di stampo socialista.
Se, infatti, il tema della lotta alle disuguaglianze è la ragione di essere della sinistra - come Norberto Bobbio ha reso evidente anche alla più ostinata "destra sociale" - non altrettanto dovrebbe dirsi per il campo avverso, dove la battaglia politica contro l'omologazione dei cittadini e il dirigismo politico dovrebbe essere una stella polare.
Si fa quindi fatica a collocare l'On. le Lella Golfo, pasionaria delle quote rosa e prima firmataria della legge 120, in un panorama politico dotato di qualche senso, coerenza e riconoscibilità.
Sintomatica della confusione ideologica che anima questa parlamentare è la sua risentita risposta all'articolo di cui prima, nella quale - oltre all'abituale intemerata sul maschilismo, che fa sempre brodo - si legge: «...credo sia un sacrosanto dove­re della politica intervenire quando i "normali" meccanismi di mercato produ­cono storture, introducendo correttivi in direzione del bene comune e del miglio­ramento della struttura produttiva.»
Quando una cosa del genere la dice Fassina - responsabile economico del PD, che tornerebbe volentieri a nazionalizzare le imprese e socializzare le perdite - lo si può capire; ma se la dice la Golfo, no.
Evidentemente, la Golfo è andata alla stessa scuola economica di Fassina; ma allora non si capisce cosa ci stia a fare nel centrodestra.
L'On. le Golfo non è tuttavia la sola del suo schieramento ad alimentare la confusione, considerato che la legge sulle quote rosa è stata votata dalla maggioranza dei suoi colleghi di partito e di coalizione.
Quindi, di quale centrodestra stiamo parlando?
E quali pessime conclusioni trarne?
Quando avvertiamo - come sempre più spesso capita - che la democrazia è messa in pericolo, che ci stiamo avvicinando pericolosamente al pensiero unico, quando vediamo ridursi gli spazi di dissenso e di libertà, quando capiamo che il momento del voto va perdendo gradualmente di significato e che la contesa politica è un teatrino stucchevole impersonato da personaggi inadatti e confusi (se non peggio), quando all'incapacità degli eletti si aggiunge l'indifferenza degli elettori, quando l'irrazionalità dell'antipolitica prende il sopravvento sulla razionalità delle scelte, quando comprendiamo di essere governati da luoghi distanti e inaccessibili che lavorano per la sovietizzazione strisciante dei rapporti sociali ed economici, non chiediamoci semplicemente chi sia ad attentare alla democrazia.
Chiediamoci, piuttosto, chi sia mai che potrà impedirne il tracollo.