Ma ne vale la pena?







Da qualche giorno, sulla cartellonistica murale che si trova in certi luoghi di transito di Roma si può trovare una pubblicità della fondazione Terre des Hommes che dice: «adotta una bambina a distanza».
Non dice un bambino, maschio o femmina che sia, dice e vuole intendere proprio «bambina».
Sul sito web dell'associazione filantropica si trova infatti conferma della sconcertante iniziativa che riserva azioni di beneficenza ad esclusivo favore delle femminucce!
Sempre da qualche tempo, in certi uffici sanitari pubblici si osservano locandine in cui si avvisa l'utenza che è stato attivato «lo sportello d'ascolto per l'identità di genere».
Il fatto che l'identità di genere sia un costrutto ideologico non sembra preoccupare minimamente chi è chiamato a fornire servizi pubblici alla persona su base scientifica.
Si radica l'idea che l'identità di genere sia una cosa vera, si dà sostegno pubblico a questa idea e poi se quest'idea produrrà conseguenze negative sul piano sociale - perché fondata su una "falsa coscienza" della natura umana - si tamponerà la falla in qualche altro modo, magari con l'intervento (appunto) delle psicoterapie adattative.

L'impressione che qualcosa di sbagliato o di artificioso o di forzato sia un po' nell'aria, insomma, la si ricava in molti modi, anche da dettagli apparentemente secondari come quelli che si incontrano casualmente per le strade del centro o negli uffici pubblici.
Se però si vuole tradurre quel qualcosa di sbagliato, di artificioso o di forzato in qualcosa di più definito non si può fare a meno di notare che il tutto converge e trova il proprio fondamento in una certa idea di progresso.
Quella certa idea di progresso che, tra l'altro, passa inevitabilmente e invariabilmente nella rimozione - se non addirittura nella condanna e nella repressione, in certi casi - di ciò che è maschile.
I bambini poveri del terzo mondo, i maschietti, non devono essere sostenuti nella loro crescita come le bambine, perché da grandi occuperanno le posizioni di potere che deve, invece, essere redistribuito a vantaggio delle donne; gli omosessuali sono invece da sostenere e promuovere perché, cancellando la virilità a vantaggio del proprio lato femminile, saranno uomini migliori, più sensibili e non violenti.
Questo è, un po' a spanne, ciò che dice una certa idea di progresso.
Che è poi quella che ci vorrebbe tutti meno maschi e più uguali, disciplinati e conformi a quel «politicamente corretto» - infiocchettato di bei sentimenti e radiose utopie sul domani - che ha insediato la propria stabile egemonia sulla pubblica opinione occidentale.
Queste sono anche le idee che, almeno sul piano generale, dovrebbero inorridire coloro che si riconoscono nella cultura anticonformistica e di nicchia raccolta intorno alla sigla QM (questione maschile).
In teoria.

Ora però fermiamoci un attimo, mettiamo un punto provvisorio e proviamo a riflettere su quanto detto sinora.
A farci caso si deve notare che la parola più utilizzata fino a questo momento è «idea».
L'intero discorso verte sul piano concettuale, dei principi teorici e del pensiero astratto.
Tuttavia, scendendo dalle alte sfere dell'idealità e tornando con i piedi per terra chiediamoci: a vantaggio di chi dovrebbe rivolgersi questa battaglia di autenticità e dignità umana?
Chi sono, in realtà, i destinatari di quei principi e che tipo di maschilità rappresentano?
Vale la pena di spendersi (anche) per loro?
Diciamo subito che la risposta è no.
Dal punto di vista di questa riflessione, infatti, l'universo maschile si divide in tre sole categorie: due molto grandi - quella degli zerbini e quella degli indifferenti - e una molto più piccola, quasi irrisoria, composta dai "militanti della questione maschile" e dagli occasionali interessati al tema.
La categoria degli zerbini è ben conosciuta: sono quelli che vivono nel senso di colpa per ciò che è successo nei millenni passati - un passato che rifiutano in blocco, quasi come la propria identità biologica - e non vogliono altro, nella vita, che espiare la colpa di essere nati maschi. Non perdono mai occasione per autoflagellarsi pubblicamente di questo peccato originale e tra le loro massime aspirazioni c'è quella di essere umiliati e culturalmente castrati «in quanto uomini».
E' il loro grande contributo al progresso e ne vanno particolarmente fieri.
L'idea di lottare (anche) per loro ha un non so che di nauseante che non sto a spiegare.
Gli indifferenti non sono, poi, molto meglio dei primi.
Sino al giorno prima hanno guardato a queste problematiche come si guarderebbe un fenomeno da baraccone: ridendoci sopra. Sono quella stragrande maggioranza che non riesce a guardare più in là del proprio naso e traduce il concetto di virilità con quello di boria: più sono boriosi e più si sentono virili.
Poi quando vengono toccati personalmente - magari per una separazione, per l'espropriazione giudiziale della loro vita o per una falsa accusa di fronte alla quale si scoprono improvvisamente e tragicamente impotenti - cascano sulle ginocchia, gridano al mondo maledetto e piangono come vitelli da latte.
Confesso che sono arrivato a pensare, in più di un'occasione, che quello che gli capita se lo sono ampiamente meritato (salvo numerose e rispettabilissime eccezioni).
Ma le note più dolenti forse vengono proprio da quella minoranza esigua: quella che ha messo la condizione maschile contemporanea al centro dei propri interessi e fa di queste tematiche una (più o meno stabile) battaglia di principi e d'opinione.
Per come l'ho conosciuto io, tra le molte stimabili presenze questo ambiente è popolato anche - e non secondariamente - di personaggi improbabili se non peggio: mezzi caporali con il fare da colonnelli, capibastone che albergano in certi scantinati virtuali polverosi e segreti nei quali coltivano prevalentemente, se non esclusivamente, inimicizie e pettegolezzi, rivoluzionari in servizio permanente che vorrebbero conciliare il diavolo con l'acqua santa senza sapere di cosa parlano, altre figure semi-ieratiche avvolte da un'aura di intangibilità mistica e professorale che non ammette dissensi.
In questo disastrato contesto la circolazione e il confronto delle idee sono prossimi allo zero, parlare di livello del dibattito culturale rischia di essere una provocazione irridente e gli accoltellamenti alla schiena dell'uno con l'altro sono l'unica cosa che rimane nella memoria.
Nella mia sicuramente.

Dunque, ne vale la pena?
Vale la pena di combattere una battaglia ideale per quelli che rappresentano l'eccezione di una regola, sotto qualunque profilo la si voglia osservare?
Vale la pena di impegnarsi per i diritti di coloro i quali finiscono per atteggiarsi, sempre e comunque, come nemici?
Vale la pena lottare per un'idea ignorando la realtà effettiva - la carne e il sangue - che quell'idea vorrebbe difendere e preservare?
No, a pensarci bene non ne vale la pena.
Anche se domani mattina, uscendo di casa, troverò altri manifesti, altri avvisi e altri segnali che il mondo sta andando a puttane - e non solo metaforicamente - mi sforzerò di farmelo scivolare addosso.
Penserò ai miei diritti, ai miei principi, alle mie priorità e ai miei vantaggi.
Al diavolo tutto il resto.
E naturalmente buon Natale...