Molestie sessuali e “pregiudizio di colpevolezza”



Il "principio di colpevolezza" per la Corte Costituzionale.

I principi di ordine generale sull’imputabilità giudiziaria del cittadino, così come esplicitati dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364 del 24 marzo 1988, stabiliscono che: “…Nelle prescrizioni tassative del codice [penale, n.d.r.] il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione”.
Si legge, inoltre, ancora nella stessa sentenza: “...Se l'obbligo giuridico si distingue dalla ‘soggezione’ perchè, a differenza di quest'ultima, richiama la partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere l'obbligo d'osservanza delle leggi (delle ‘singole’, particolari leggi) penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare la sua violazione soltanto ai requisiti ‘subiettivi’ attinenti al fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d'altra parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza.”
Sin qui l’importanza annessa dalla stessa Corte Costituzionale - che è, vale ricordarlo, il Giudice sovraordinato delle leggi - alla possibilità effettiva di conoscenza delle norme vigenti, da parte del cittadino, ai fini dell’imputabilità personale per la loro eventuale violazione.

Detto in altre parole, se non esiste una definizione chiara ed oggettiva di cosa sia un comportamento penalmente rilevante in quel determinato contesto della vita associata, lo Stato non può pretendere dal cittadino, com’è ovvio che sia, la perfetta osservanza di quelle norme particolari.
Questo è, tra l'altro, ciò che distingue un cittadino da un suddito (la Corte parla di stato di ‘soggezione’ dell’individuo) e lo Stato (il legislatore) da un Leviatano irrazionale che assoggetta, arbitrariamente, i sudditi al proprio oscuro volere.
Credo di avere speso sin troppe parole, sinora, per illustrare un principio elementare della nostra civiltà giuridica e del nostro assetto democratico, che garantisce (o dovrebbe garantire) per via costituzionale il comune cittadino dall’arbitrio di norme irragionevoli.
Non vedo, inoltre, chi potrebbe seriamente mettere in discussione un criterio oggettivo di partizione della realtà, tale da consentire a tutti noi, in un modo o nell’altro, di comprendere cosa sia ritenuto comunemente “lecito” e cosa “illecito” e, in tal modo, di evitare – come si dice, altrettanto comunemente - guai con la legge.

Le molestie sessuali secondo l'ISTAT: come si costruisce il pregiudizio di colpevolezza.

A smentire quest'ultima considerazione ci pensa, ancora una volta, l’ISTAT che, con la ricerca “Le molestie sessuali – anni 2008/2009 –" di recente pubblicazione, va nella direzione esattamente opposta rispetto a quei basilari principi di buon senso, acclarati dalla Corte Costituzionale in chiave giuridica, sulla base dei quali siamo soliti misurare le condotte individuali e la loro eventuale censurabilità.

Infatti, esattamente com’era avvenuto per la famigerata ricerca sulla “violenza maschile contro le donne”, risalente ad alcuni anni fa, metodologia di ricerca, presupposti di valore e criteri concettuali utilizzati si prestano a tali e tante contestazioni da far ritenere la ricerca stessa qualcosa di più vicino ad un comunicato propagandistico, con effetti sociali intimidatori (con finalità di deterrenza, direbbe l'Alta Corte), piuttosto che un'elaborazione su basi scientifiche, come vorrebbe (e dovrebbe) essere.
Vediamo perché.
Occorre innanzitutto premettere che il generico termine "molestie sessuali" non è neanche previsto dal nostro ordinamento nel senso che, con l'emanazione della legge 66, nel 1996, tutte le fattispecie di reati a carattere sessuale sono rubricate nella categoria ideologica degli "atti sessuali" e sanzionate tutte, senza eccezione alcuna, come "violenza sessuale"; tanto la pacca sul sedere quanto lo sguardo troppo prolungato sulla scollatura sono punibili, dal 1996 in poi, come espressioni di violenza sessuale.
Non so quanti siano al corrente di questa realtà ma questa è la realtà delle cose giuridiche, anche nel nostro Paese.
Non potendo, l'ISTAT, discernere seriamente tra comportamenti dalla gravità tanto differenziata (dalla violenza carnale al banale ammiccamento, sino alla semplice battuta di spirito) ha, pertanto, ideato quella che dovrebbe risultare una specificazione dei comportamenti di minore gravità, distinta da quelli propriamente criminogeni, ricavandone questa approssimativa elencazione:
  • molestia verbale
  • pedinamento
  • esibizionismo
  • molestia fisica
  • telefonate oscene
Fatta eccezione per le telefonate oscene e per gli atti di esibizionismo - di cui si può anche intuire il significato senza troppe specificazioni - non si trova, all'interno dell'intero documento pubblicato, una definizione anche solo vagamente oggettiva di 'molestia verbale' e di 'pedinamento'.
Quando ricorre la molestia verbale e quand'è che ci si trova davanti ad un pedinamento?
L'ISTAT non lo spiega, lo dà per scontato, laddove io potrei considerare una battuta di spirito ciò che l'ISTAT (e le sue intervistate) chiama molestia verbale - come insegna il caso dell'ex assessore milanese Paolo Massari - e semplice curiosità umana ciò che l'ISTAT (e le sue intervistate) chiama pedinamento.
Per quanto riguarda la 'molestia fisica' - la più grave, evidentemente - la definizione utilizzata è: "le situazioni in cui la donna è stata avvicinata, toccata o baciata contro la sua volontà."
Dunque, non solo toccare o baciare, senza alcuna specificazione dei modi e delle forme, ma addirittura l'avvicinamento indesiderato viene considerato ed annoverato tra le molestie sessuali; ossia, il semplice avvicinamento spaziale, come se fosse l'invasione di un'area sottoposta a confinamento militare, risulterebbe, secondo questa logica inquisitoria, come un "atto sessuale"e, in quanto tale, a norma di legge, una "violenza sessuale".
Il picco dell'arbitrarietà colpevolizzante nell'interpretazione dei comportamenti maschili quotidiani la si raggiunge, tuttavia, in materia di "ricatti sessuali sul posto di lavoro", per la misurazione dei quali il quesito posto alle intervistate - riportato in una nota a piè di pagina 8 del documento - è il seguente: “qualcuno le ha fatto capire che se fosse stata disponibile sessualmente avrebbe potuto avere in cambio un lavoro, ad esempio le hanno chiesto se era fidanzata, se era disponibile ad uscire la sera o ad andare a cena o a pranzo fuori insieme?”

Lascio al singolo lettore valutare se ci si trovi di fronte ad un'interrogativo che individua un comportamento ricattatorio o se non si tratti di una cultura del sospetto elevata, istericamente e pregiudizialmente, a fonte di prova di un abuso.
Sulla base di items dalla concettualizzazione tanto generica - tali, quindi, da poter condurre a qualsiasi conclusione - e tenendo bene a mente che lo scopo della ricerca sarebbe stato quello di misurare il livello di diffusione di un fenomeno antigiuridico, l'ISTAT ha sottoposto ad intervista telefonica un campione, negli anni 2008 e 2009, pari a 24 mila 388 donne di età compresa tra i 14 e i 65 anni; le proiezioni statistiche della ricerca avrebbero, così, portato alla conclusione che "circa la metà delle donne in età 14-65 anni (10 milioni 485 mila, pari al 51,8 per cento) hanno [avrebbero] subito nell’arco della loro vita ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato".
La molestia più diffusa sarebbe quella verbale (anche se non si sa bene di cosa si tratti), con il 26,6 per cento, seguite dagli episodi di pedinamento (21,6 per cento), dagli atti di esibizionismo (20,4 per cento), dalle molestie fisiche (19 per cento) e dalle telefonate oscene (18,2 per cento). Per ciò che riguarda il fenomeno sul posto di lavoro, sarebbero un milione 224 mila le donne che avrebbero "subito molestie o ricatti sul posto di lavoro, pari all’8,5 per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione".
Rinviamo al link della ricerca per gli eventuali approfondimenti statistici del caso, avendo noi, già con questi dati, l'intera polpa della questione.
In realtà, quello che è stato svolto dall'ISTAT, in regime di convenzione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, non è una rilevazione oggettiva del fenomeno - per la quale si sarebbe dovuto portare, come variabile di riferimento, quantomeno il dato giudiziario effettivo esistente nei tribunali italiani - né, tantomeno, un sondaggio d'opinione fine a sè stesso, circa la percezione soggettiva femminile degli atteggiamenti maschili.
Più propriamente, a nostro giudizio e sulla base delle evidenze metodologiche e concettuali di cui abbiamo detto, quello svolto dall'ISTAT risulta essere un processo sommario di massa nel quale - in barba a qualunque elementare principio del contraddittorio (audiatur et altera pars) - è stata ammessa a rappresentare le proprie ragioni e la propria versione dei fatti unicamente una delle parti in gioco (il mondo femminile) e del tutto tralasciate, come se non fossero chiamate in causa anche quelle, le ragioni e la versione dei fatti dell'altra parte in gioco (quella maschile).
Perché, ad esempio, non viene condotta un'analoga ricerca sulla percezione che gli uomini hanno del proprio comportamento e sul significato che loro, soggettivamente, riconoscono come sconfinamento nell'illecito?
Perché non mettere a confronto situazioni tanto soggettive, assegnando ad una sola parte in gioco la definizione, unilaterale e personalmente interpretabile, di ciò che è lecito e ciò che non lo è?
Sulla base di quale folle logica procedurale si può assegnare ad una sola delle parti in causa la veste, contemporanea, di parte lesa e di giudice giudicante dell'accusato?
Messa nei termini in cui l'ha messa l'ISTAT, invece, si tratta semplicemente di un'opera di colpevolizzazione di massa del mondo maschile, inversamente proporzionale alla vittimizzazione di massa del mondo femminile che si vorrebbe accreditare per via scientifica, perché, oltre a quello che dicono le cifre, abnormi e grottesche, si deve prestare attenzione al fatto che di reati si tratta ed i reati vanno, prima di tutto, definiti oggettivamente.
I reati, in summa, si accertano, non si postulano come hanno fatto l'ISTAT ed il suo committente, dato che il primo è un istituto di ricerca statistica ed il secondo un organo del Governo e nessuno dei due è mai stato investito, a quanto risulta, delle funzioni straordinarie di tribunali del popolo.
Quanto detto sinora vale per tutte le buone e solide ragioni dettate dal buon senso; quelle fatte proprie, come si è visto, dalla Corte Costituzionale in ordine alla necessità inderogabile che le norme (e, quindi, anche la loro violazione) abbiano una loro conoscibilità e riconoscibilità oggettiva se si vuole rimanere nell'alveo di garanzie giuridiche comuni, senza sconfinare nell'arbitrio della delazione e della conseguente caccia alle streghe.
Come, infatti, avveniva nella Germania nazista o nell'Unione Sovietica o nell'America maccartista, dove il vicino di casa poteva far incriminare l'inquilino della porta accanto sulla base di una generica accusa di ostilità al regime ed alla sua ideologia.

Il pregiudizio di colpevolezza.

Ma cosa ha reso e rende possibile che un organo dello Stato, anzi due, promuovano indagini statistiche predeterminate nelle conclusioni, allo scopo di fornire una rappresentazione della realtà sociale, pubblicamente accreditata, tanto deformata nei presupposti quanto deformante nelle conclusioni?
La nostra risposta è semplice ed immediata: pregiudizio ideologico.
Quando la scienza è mossa dall'ideologia (e dalla politica), si preoccupa soltanto di andare alla ricerca delle conferme necessarie a consolidare i propri pregiudizi di partenza, invece di andare alla ricerca - come ci ha insegnato K. Popper, prima degli altri - della verifica e dell'eventuale disconferma delle ipotesi di partenza.
Non è, quindi, affatto un caso che la ricerca sia stata condotta con la partecipazione e sotto l'egida del dipartimento per le pari opportunità - com'è noto, schierato ideologicamente in modo preconcetto - allo scopo di alimentare quel "pregiudizio di colpevolezza" con il quale, dal femminismo in avanti, è stato descritto il "maschio" ed i suoi comportamenti.
L'autorevolissimo editorialista del Corsera, P. Ostellino, in un articolo pubblicato nel luglio scorso, dall'emblematico titolo "Se vige il pregiudizio di colpevolezza", scriveva: "...in sede processuale, l' accusa - lo può testimoniare ogni avvocato penalista - per il solo fatto d' essere formulata da un potere dello Stato, gode di fatto (ancorché non in diritto) di una condizione di privilegio sulla difesa e, a livello di opinione pubblica, è credibile e persino giusta per definizione. Il «pregiudizio di colpevolezza» - invece di quello liberale di innocenza - è un riflesso della nostra vocazione totalitaria per lo Stato etico (fascista, comunista, teocratico che sia). In nome della Collettività - che è poi l' astrazione ideologica cui fa capo, in concreto, il potere di politici, pubblici amministratori, magistrati e che, per dirla con Marx, è espressione della cultura dominante - ci compiacciamo quando «è fatta giustizia», non quando «si afferma la Giustizia»."
Ecco, noi crediamo che le indagini accusatorie condotte dall'ISTAT, in sinergia con la ministra Carfagna e con quelle che l'hanno preceduta, rispondano a questa logica; quella di avvalorare e cronicizzare, a livello di opinione pubblica, un "pregiudizio di colpevolezza" nei confronti degli uomini, per assecondare la predominante prospettiva etico-politica pro-female di cui è intasata la nostra cultura; una prospettiva comunque finalizzata ad affermarsi come cultura dominante di tipo totalitario, perché non ammette altre ragioni oltre le proprie, anche a costo di sfociare nell'arbitrio di cui si è detto e di imporlo per via legislativa e giudiziaria.
Ciò che ne residua, a livello delle persone comuni le quali rimangono, comunque, i destinatari ultimi di questa propaganda, è il crescente disagio con il quale ormai tanti uomini si accostano alle donne, non sapendo esattamente cosa sia ammesso e cosa no, cosa sia lecito e cosa no; non sapendo più, insomma, come avvicinarsi.
Sanno solo di doversi accostare ad un giudizio indecifrabile di idoneità comportamentale, interamente e soggettivamente depositato nelle mani di lei, che potrebbe anche risolversi, sulla sola base della percezione soggettiva della singola tizia, in una denuncia penale.
Questo è, a guardare fino in fondo la questione, ciò che produce la cultura del sospetto generalizzato verso il mondo maschile - promossa anche dall'ISTAT e dalle c.d. pari opportunità, sulla falsariga del "femminismo di fatto" di cui è pervasa la nostra cultura - ed il pregiudizio di colpevolezza indiscriminato è ciò che ne costituisce il precipitato conclusivo.
Un risultato davvero triste, per tutti.