Tra le prerogative e le caratteristiche tipicamente maschili e, quindi, tra le sue ragioni generali io annovero anche l’attitudine alla difesa del territorio, dell’identità nazionale, del patrimonio economico, di quello culturale, delle tradizioni, degli interessi geopolitici e di tutto ciò che è - secondo una nota formula, peraltro non priva di alcune ambiguità semantiche - il “bene comune” nazionale.
Occupazioni e preoccupazioni che sfiorano in minima parte l’orizzonte femminile, proteso verso tutt’altro panorama di vita individualistico, frivolo e intimistico, ma che appartengono stabilmente alla prospettiva concreta e pragmatica degli uomini, consapevoli di vivere nella realtà della polis e di doversene fare carico.
Se anche dovessi essere considerato per questo un nazionalista, uno sciovinista, un maschilista retrogrado o, magari, un fascista cavernicolo, me ne infischio; chi vive di pensiero libero resterà libero, chi vive di etichette finirà etichettato come un prodotto da bancone del supermercato e pace all’anima sua.
Ciò che sta avvenendo nel nostro Paese, a causa della sciagurata cessione di buona parte della sovranità nazionale a quel disegno illusorio e artificiale che è l’Europa, è inquietante.
Non fosse bastato quel colpo ferale al nostro livello medio di benessere che è stato il passaggio all’euro (la nostra economia ha smesso di crescere da quel momento), non fosse bastato il sacrificio di assoggettarsi ad un ulteriore girone infernale di vincoli burocratici asfissianti e costrittivi come quelli di eurolandia, non bastasse la sottomissione dei nostri governanti al cospetto del duo “Merk-ozy” che abbiamo osservato nelle scorse settimane, non bastasse ancora la necessità attuale di impinguare le casse del "Meccanismo europeo di stabilità" con contributi italiani pari ad almeno tre manovre correttive di finanza pubblica; non fosse bastevole, insomma, quel gran casino inutile e dannoso che si è rivelato, comunque, essere sinora l’Unione Europea, stiamo probabilmente per assistere alla razzia finanziaria dei gioielli industriali italiani, in agguato dietro l’ombra del default nazionale e quindi della moneta unica nel suo complesso.
Tra le misure che vengono dettate in questi giorni al governo del nostro Paese dalle autorità straniere dominanti c’è, com’è noto, la drastica e anticipata riduzione del colossale debito pubblico, mediante misure tra le quali potrebbe improvvisamente emergere, tra l’altro, anche la probabile cessione degli asset industriali strategici (energia, infrastrutture, comunicazioni, difesa) tuttora in mano pubblica, allo scopo di fare cassa e riempire l’astronomico buco provocato da decenni di dissennate, maternalistiche e irresponsabili politiche assistenziali.
In pratica, messo alle strette dalla contingenza del momento, il governo – vedremo quanto, come e da chi assecondato in Parlamento – potrebbe vedersi costretto a vendere i gioielli di famiglia al miglior offerente per non ritrovarsi sul lastrico.
Il caso, in particolare, riguarda Finmeccanica, gruppo industriale d’eccellenza assoluta nel mondo, che opera nel settore della difesa, degli armamenti e dei trasporti; definire strategici e più che appetibili il know-how tecnologico in suo possesso, il grado di inserimento nel mercato internazionale e le capacità produttive di questo colosso industriale è davvero poco.
Vagamente sospetta anche la tempistica attraverso la quale il gruppo - alla vigilia dell'attuale crisi dei debiti sovrani, già ampiamente prevista da moltissimi analisti - è incappato nei noti guai giudiziari che hanno fatto precipitare in Borsa il valore del titolo sotto i minimi patrimoniali (ossia, a prezzi di pura e semplice liquidazione).
Finmeccanica, ma non solo; basti pensare all’ENI, alla dimensione strategica della sua presenza in Libia e nei paesi dell’est o ad ENEL ed alla sua importanza sul piano delle politiche e dei prezzi dell’energia in campo europeo.
Solo le prossime misure governative – da qui ai prossimi sei mesi almeno - potranno gettare luce su ciò che appare, allo stato, nebbioso, ancora imperscrutabile ma molto sospetto e molto allarmante per gli interessi vitali del nostro Paese.
In questo senso ha ragioni da vendere la "cassandra" Ida Magli, la quale ormai da anni denuncia i rischi potenziali di un progetto di unificazione continentale calato dall'alto sulla testa dei diversi popoli europei, con una distanza abissale tra il comune sentire e capire del cittadino medio e le contorte, incomprensibili alchimie politiche dei tecnocrati dimoranti a Bruxelles, entro le quali può nascondersi di tutto.
La «dittatura europea» di cui ha parlato l'antropologa, anche in un saggio di recente pubblicazione, va gradualmente rendendosi evidente attraverso il graduale e progressivo svuotamento delle volontà popolari, spesso chiamate alla mera, passiva ratifica di decisioni comunitarie opache, lontane geograficamente e culturalmente, di cui sfuggono origine, passaggi procedurali, senso ultimo e identità concrete dei "manovratori"; spesso rivelandosi questi assai più vicini ai circoli esclusivi dei grandi potentati economici e finanziari che alle classi dirigenti elettive (e, quindi, pubblicamente controllabili).
Sovranità nazionale all'interno dei propri confini e capacità di autodeterminazione dei popoli sono due facce della stessa medaglia, il cui valore fondamentale sta nell'autonomia democratica del potere decisorio popolare svincolato da condizionamenti esterni, qualunque ne sia la ragione ultima; buona o cattiva, palese oppure occulta.
Il progetto degli Stati Uniti d'Europa appare, invece, sempre più come un processo di omologazione forzata ad un disegno utopico, astratto e totalizzante, a concezioni enunciate nei trattati costitutivi per le quali non è previsto né ammesso l'esercizio del dissenso nazionale, a forzature culturali miranti ad uniformare stili di vita geograficamente e antropologicamente differenziati da secoli di storia, usi e costumi tutt'altro che identici, comuni o coesi.
Il primato dell'economia sulla politica in campo europeo - come andiamo constatando - sta prendendo forma definita in questi giorni, unitamente alla perdita di controllo democratico sui destini nazionali ed a tutti i rischi inevitabilmente connessi di cui abbiamo parlato prima.
Per chiudere un cerchio di valutazioni complessive sul tema, inoltre, la minaccia di un'asservimento a logiche lontane e oscure - in quanto sostenute solo dall'utilitaristico collante valutario e commerciale dell'economia - investe direttamente e frontalmente la questione maschile e non solo per la nostra naturale propensione a difendere gli spazi di libertà e autonomia dalle invadenze esterne; ma anche nella misura in cui si vanno facendo sempre più ridotti gli spazi di dissenso politico su molti altri aspetti della vita associata.
I principi pro-female - o antimaschili, che è lo stesso - fondati sulle «teorie di genere», sulle discriminazioni positive, sull'empowerment femminile, sulla demolizione della famiglia tradizionale, sulla parità statistica tra i sessi alle posizioni apicali ed altro sono, tra le molte dello stesso segno egualitarista, parte integrante e costitutiva del tessuto ideale europeo, secondo un disegno di società già dato e codificato nei valori comunitari, che rende semplicemente superflua e fatalmente inutile, a medio e lungo termine, qualunque potenziale opposizione di merito e di contenuti.
Di questo in parte abbiamo già trattato in occasione dei provvedimenti sulle quote rosa nei consigli d'amministrazione privati.
Si dovrà tornare a parlarne e prenderne coscienza, mano a mano che gli spazi di autonomia si ridurranno per il realizzarsi del progetto politico di omologazione europea.
Il capitolo Europa è solo agli inizi ma andrà sviluppato con attenzione e forte spirito critico.
Resta comunque inteso che questione maschile ed euroscetticismo possono e devono andare di pari passo, avendo come obiettivo comune, in ultima analisi, il recupero e la riappropriazione di spazi di libertà negati.