Dunque, con buona pace di ogni principio meritocratico effettivo - del quale, pure, l'attuale maggioranza di governo ha fatto un proprio vessillo politico e programmatico - il Parlamento si accinge a discutere l'introduzione, in via definitiva, di "quote rosa" nei consigli d'amministrazione delle società per azioni, con il placet condizionato (ma non troppo) del Ministro Tremonti.
La proposta di legge, approvata in Commissione Finanze, viaggia in Parlamento con il sostegno bipartisan dei due partiti maggiori, in totale assenza di un qualunque distinguo di merito e di un qualunque contraddittorio politico.
La potente lobby rosa, trasversale ai partiti, incoraggiata e sostenuta da quasi tutti i media come se si trattasse di un'associazione di beneficenza, ha messo a segno un altro grosso punto a proprio vantaggio; detta al contrario ma con identico significato, la potente ed intangibile lobby rosa ha messo a segno un altro punto a svantaggio del mondo maschile per farsi spazio ai suoi danni (...altro che beneficenza).
A sorprendere non è più, ormai, né il silenzio passivo e succube dell'uomo medio di fronte all'arrembaggio femminile ai "mejo posti" che si vuole garantire ex lege; né il cocciuto silenzio dei liberali e dei liberisti di ogni ordine e grado politico di fronte ad una forma di assistenzialismo pubblico che introdurrebbe ricette di "socialismo di fatto” nel tessuto economico, tali da burocratizzare le libere scelte degli azionisti e recintarne l'autonomia di gestione all'interno di prescrizioni statali calate dall'alto.
A queste forme di silenzio masochistico (nel primo caso) e di silenzio colpevolmente contraddittorio (nel secondo) siamo, purtroppo, abituati dopo decenni di lavaggio sociale del cervello con candeggina mediatica rosa (leggasi vittimismo), che sembra avere trasformato il significato originale delle cose politiche sino ad una tinta unica, indistinta ed incolore.
Se persino una testata come L'Occidentale - organo della Fondazione Magna Carta, i cui riferimenti culturali sarebbero, a loro dire, quelli del liberalismo conservatore - pubblica con disinvoltura articoli che inneggiano alle quote rosa, allora vuol dire che siamo arrivati, alla fine, alla famosa notte in cui le vacche politiche sono tutte grigie allo stesso modo.
E' per questo motivo che spiccano, in un quadro tanto desolante di conformismo generalizzato ed acritico sul tema, i pur timidi messaggi controcorrente che A. De Nicola dal Sole 24ore e Marco Faraci dal sito Libertiamo hanno lanciato nel pneuma della rappresentanza maschile, politica e mediatica.
Il primo denuncia da subito i rischi a cui si sottopone ricordando che "gli uomini prudenti, per paura di sembrare avversari del progresso, non scrivono mai articoli di questo genere"; lui lo ha fatto, va reso merito al suo coraggio, ma va anche osservata la straordinaria cautela con la quale sembra muoversi in un territorio dichiaratamente ostile, invece che nel vasto, aperto spazio della libertà d'espressione.
De Nicola non potrebbe essere più chiaro: le quote rosa sono un nuovo modo di definire e legittimare la vecchia “raccomandazione politica” estendendola ad un’intera categoria sociale (le donne); ossia di creare una nuova casta privilegiata (le “gonne dorate” pare le chiamino in Norvegia) e di falsificare, in tal modo, le dinamiche sociali ed economiche.
Marco Faraci, ancora più direttamente e coraggiosamente, richiama l’attenzione sul fatto che "già negli organismi politici elettivi è sbagliato parlare di 'sotto (o sovra) rappresentazione' di uno dei due sessi, in quanto, da Costituzione, gli eletti non rappresentano i cittadini del proprio sesso, bensì la Nazione tutta. Ma meno che mai il concetto di 'sotto (o sovra) rappresentazione' può avere senso in economia. In economia ciascuno si rappresenta da sé – ed appare quanto meno bizzarro affermare che chi si trova in una determinata 'posizione' rappresenti gli altri."
A fare le spese di questo provvedimento di coartazione delle volontà individuali saranno, inoltre, quegli uomini che si vedranno superati solo in ragione del proprio sesso; vittime sacrificali sull'altare del politicamente corretto elevato a sistema giuridicamente vincolante.
Tutte le osservazioni ed i rilievi mossi dai due autori contro le quote rosa hanno solida fondatezza, si ispirano a criteri di condivisibilissimo buon senso e denunciano come meglio non si potrebbe ciò che, laddove realizzato, significherebbe un artificioso spostamento di possibilità, sic et simpliciter, da una categoria che si adopera molto per la propria crescita sociale (gli uomini) ad un'altra che non si "sciupa davvero troppo" per crescere socialmente (le donne) ma che si ritroverà a disposizione, in forza di un semplice provvedimento autoritativo, posizioni di rilievo e di prestigio assicurate.
Sarebbe del tutto condivisibile anche l'appello finale di Faraci, il quale osserva che "è urgente, pertanto, mobilitarsi per una risposta politica e culturale alle affirmative actions", nella consapevolezza che "il salto di qualità normativo...l'introduzione di elementi di diritto sessuato" nel nostro ordinamento rappresentano una soglia di non ritorno verso un'alterazione grave degli equilibri sociali.
Tutto condivisibile e giusto, se non fosse che l'appello, le contestazioni ed i rilievi di fatto e di diritto cadono in un desolante vuoto di consensi e di attenzione generale; come è possibile, allora, che le ottime ragioni cui abbiamo fatto cenno non trovano rappresentanza politica? per quale oscuro motivo le ragioni femminili vengono sistematicamente anteposte a quelle maschili, come se il nostro mondo fosse ancora l'ottocentesca realtà di Sibilla Aleramo? perché neanche tra le forze che si richiamano alla conservazione ed alla tradizione si ritrovano punti di dissenso rispetto all'aberrante misura delle quote rosa?
La domanda è impegnativa ed occupa, con la sua centralità, buona parte degli articoli che andiamo dedicando alla questione maschile, in un modo o nell'altro; una prima, iniziale risposta di merito, tuttavia, possiamo cominciare ad abbozzarla e si tratta di partire da lontano, lì dove, forse, il problema ha la sua origine, l'Europa.
Dimentichiamo, infatti, molto spesso che la sovranità delle nostri istituzioni nazionali è una sovranità limitata sin dal lontano 7 febbraio 1992 quando, a Maastricht, i plenipotenziari del nostro Paese sottoscrissero, con gli altri, il Trattato istitutivo dell'Unione Europea.
Nella versione consolidata (comprensiva degli aggiornamenti intervenuti da allora), al Titolo I° delle disposizioni comuni, si legge (art. 2) "L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini."
Si osserva, poi, all'articolo 3, 3° comma, del trattato: "L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore."
E ancora, l'articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea recita ancora più perentoriamente: "La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato."
Per il momento sembra opportuno evidenziare, quindi, che le decisioni di merito sono state già prese altrove, i parlamenti nazionali sono chiamati solo a dare applicazione ai principi ed alle direttive europee e, in questo modo, ogni forma di dissenso rispetto alle c.d. problematiche di genere (espressione insensata in quanto il genere non esiste, esiste il sesso) è stata già tacitata a suo tempo; la saracinesca è ormai chiusa.
Forse si arriva solo con colpevole ritardo a comprendere quanto si è demandato ad organismi lontani geograficamente, culturalmente e politicamente, non solo da noi ma dall'intera realtà.
Questo ci sembra, per ora, solo un buon inizio per tornare a ragionare di quote rosa senza sorprendersi dell'inerzia politica generale circa i suoi significati concreti; è poco forse ma, forse, si tratta di ripartire proprio da lì.