La civiltà della paura







Il nostro è un mondo che coltiva la paura.
Il coraggio e la risolutezza - a parte l'avventatezza spregiudicata che, pure, in qualche momento ha mosso le leve della storia - sono state da tempo bollate come “virilismo”, tracotanza machista, volontà di dominio, e sono state riposte in un cassetto, come roba vecchia, inutile, anzi decisamente dannosa. Di fronte ai pericoli, veri o presunti, l’unica via di scampo, da allora, rimane la fuga o la paralisi e l'invocazione d'emergenza alle pubbliche autorità preposte.
L’ignoto non interessa più, anzi spaventa e non ci sono più nuovi mondi da scoprire tranne quelli dell’intimità psicologica, i labirinti interiori nei quali perdersi a forza di chiacchiere.
Gli anti-eroi pullulano, nella cultura popolare e nel cinema, con le loro frementi paure, l'emotività amplificata, le proprie debolezze, il proprio "lato femminile".
Il nuovo, acclamato eroismo, invece, è quello delle vittime innocenti dei disastri, delle sciagure impreviste e dei crimini; il loro merito non è quello di aver saputo superare le avversità o i pericoli ma di esserne rimaste schiacciate e di poter così continuare ad alimentare la paura a beneficio di tutti gli altri. Quanti applausi, ogni volta, all'uscita di quelle bare.
Più ci allontaniamo dai pericoli e più sembriamo spaventati dal non poterli controllare integralmente, dal non estromettere definitivamente l'elemento incognito dalla nostra esistenza.
Il punto è proprio questo; che la domanda di sicurezza contro gli imprevisti della vita cresce in misura direttamente proporzionale alla sicurezza raggiunta, come se non fosse stata mai raggiunta, investendo principalmente la politica e la scienza con una richiesta incessante e mai sazia di provvedimenti precauzionali, di opere di prevenzione, di misure di tutela della salute pubblica e dell'incolumità privata.
Da quando abbiamo smesso di chiedere protezione a Dio l'andiamo rivolgendo ossessivamente a qualcun altro, affidandogli la salvezza delle nostre vite biologiche ed esigendo, in cambio, risposte certe e rassicuranti in cui credere.
E politiche di prevenzione su tutto.

C’è un’intera gamma di avvenimenti - di cui, quotidianamente, abbiamo notizia – che induce alle considerazioni generali di cui sopra.
Prendiamo il più recente, quel carosello mediatico che è stato imbandito intorno all’arrivo dell’uragano Irene sulla Grande Mela.
La città si era attrezzata come per affrontare una guerra, in un crescendo di allarmismo impaurito, alimentato dai media, dagli esperti e dalle stesse autorità pubbliche. Si prefiguravano scenari apocalittici in tutte le possibili varianti e si è agito di conseguenza, con le misure eccezionali di prevenzione che tutti abbiamo appreso dai reportage.
Ironicamente, Giuliano Ferrara ha scritto, i giorni successivi, che su Manhattan era stato messo un grande preservativo e mai definizione di un avvenimento è stata sintetizzata in modo così efficace.
Però, all’indomani del grande flop meteorologico, quando Irene si è rivelata essere poco più che un acquazzone estivo, nessuno si è lamentato delle debordanti misure che erano state allestite, né dei costi astronomici che la paralisi cautelare della città ha comportato a spese di tutti i soggetti coinvolti.
Tanto in quanto quei costi andavano a compensare la prioritaria esigenza di sicurezza che è solito porsi in questi casi con l'abituale domanda: «cosa si può fare per minimizzare i rischi?»
La battaglia a tutto campo contro il fattore “rischio” non ha toccato, però, in questo caso i suoi vertici storici.
Sembra appropriato dire che quel vertice è stato toccato qualche tempo fa, qui da noi, quando alcuni responsabili della protezione civile sono stati messi sotto indagine dalla magistratura per non aver saputo prevedere il terremoto che, due anni fa, ha sconvolto L’Aquila.
Proprio così, la scienza non ha fatto il suo dovere divinatorio, si è rivelata impotente di fronte all’imprevedibilità della natura e non ci ha dato quelle garanzie di salvezza di cui ci nutriamo come cuccioli impauriti; che vada sotto processo.
Ma si potrebbe continuare all'infinito: dalle paure nucleari all'indomani del disastro di Fukushima - con il dissennato referendum che ci condanna agli impossibili costi energetici attuali - sino alle psicosi collettive per le influenze e i raffreddori stagionali; dalla paura delle macchie solari a quella dei cibi cancerogeni; dalla paura dell'aria che respiriamo a quella del 12 dicembre 2012 (la nuova fine del mondo in agenda).
E senza stare neanche a scomodare gli ecologisti - che con i loro catastrofismi planetari elevati a religione laica sono i più indefessi seminatori di paure - basterebbe fare caso a come ci si è ridotti ad andare in bicicletta: caschetti protettivi, giubbini catarifrangenti, mancano solo la sirena e la luce lampeggiante obbligatoria.

La cultura della prevenzione si fonda in effetti sul culto della paura, per la semplice ragione che non c'è nessun bisogno di occuparsi preventivamente - in modo quasi preveggente - di ciò che non si teme, anche se non lo si teme solo perché non lo si conosce.
Nessuno potrà mai garantirmi definitivamente che uscendo di casa non mi imbatterò in un rapinatore o in un pazzo omicida, ma se smetterò di uscire di casa per questo motivo avrò comunque amputato la mia esistenza di qualcosa.
Tuttavia, per un'efficace cultura della prevenzione bisogna avere paura di molte cose ed essere sistematicamente informati dei potenziali pericoli incombenti.
La funzione della scienza sembra assolvere esattamente a questa funzione, quella di informarci minuziosamente, in modo quasi maniacale, dei rischi che corriamo nella vita quotidiana e di come prevenirli; i media danno il loro onesto contributo alla diffusione delle relative paure e tutti noi rinunciamo a vivere così come ci verrebbe spontaneo.
Eppure il fattore rischio non ha solo accompagnato la vicenda umana nei millenni, ma ne è stato anche il fattore qualificante; non ci sarebbe stato progresso senza l'accettazione del rischio, per la semplice ragione che ogni scoperta ed ogni avanzamento sono state fatte esplorando l'ignoto e accettandone i rischi conseguenti.
E' stato opportunamente ricordato, nei giorni scorsi, come l'intera storia dell'evoluzione umana sia stato un processo per tentativi ed errori, mentre un fondamentale mutamento di paradigma prescrive oggi che si proceda secondo il rassicurante principio del «tentativo senza errore».
Un delirio di onnipotenza che si illude di poter esercitare un controllo totale su tutte le variabili e le incognite della condizione umana ma che conduce, inevitabilmente, alla stasi.
Ma che, soprattutto, consegna le chiavi della nostra vita agli apparati, agli specialisti, ai tecnocrati ed alle burocrazie politiche, dai quali abbiamo imparato a dipendere come bambini indifesi ed ai quali, ultimi, rimangono le decisioni su tutto.
E', probabilmente, anche per questo che la nostra è, come a molti sembra, una civiltà in decadenza: perché ha smesso di coltivare il coraggio e l'indipendenza per abbracciare la paura e la dipendenza.
E quel mutamento di paradigma sembra coniugarsi alla perfezione con la femminilizzazione della società che tutti stiamo imparando a riconoscere tra le pieghe degli avvenimenti.