Le definizioni della realtà, la nostra socialità, la nostra stessa autocoscienza, ciò che genericamente chiamiamo cultura, tutto questo si fonda e si realizza nel linguaggio.
Se non potessimo declinare a parole concetti astratti come libertà, dovere o giustizia sarebbe impossibile tradurli in immagini disegnate o comunicarli a gesti e, quindi, dare loro vita, significato e senso comune.
Pertanto poche altre cose come le parole, il loro significato corrente e la consuetudine del loro utilizzo illustrano meglio lo spirito del tempo nel quale viviamo; quello Zeitgeist che, volenti o nolenti, condiziona e definisce la nostra vita associata.
Tra le molte parole che caratterizzano il nostro tempo e ne definiscono maggiormente la distanza con altri momenti storici ce n’è una, in particolare, che ricorre con particolare insistenza nelle più disparate occasioni; quella parola è “maschilismo”.
L’etimo di questo termine è nebuloso dovendosi far coincidere, non tanto per l’origine quanto per la sistematica penetrazione nel linguaggio quotidiano, con la storia del femminismo; e sempre a quest’ultimo movimento deve ascriversi la pletora di significati a cui vorrebbe dare vita e declinazione.
Maschilismo si rivela, infatti, una parola multiuso; un grimaldello verbale con il quale scardinare il senso delle cose a piacimento.
Stando all’autorevole sito Treccani questo termine, «coniato sul modello di femminismo, è usato per indicare polemicamente l’adesione a quei comportamenti e atteggiamenti (personali, sociali, culturali) con cui i maschi in genere, o alcuni di essi, esprimerebbero la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne sul piano intellettuale, psicologico, biologico, ecc. e intenderebbero così giustificare la posizione di privilegio da loro occupata nella società e nella storia.»
Rileva, immediatamente, la funzione “polemica” del termine; polemica già contenuta nella definizione stessa che presuppone – non si sa bene in base a quale assunto storiografico acclarato – che i maschi godrebbero (indebitamente, è implicito) di una posizione di privilegio nella società e nella storia. Un banale computo, anche a spanne, delle morti, delle mutilazioni, dei sacrifici e dei rischi personali sopportati dagli uomini per cause di guerra, di rapporto con la materia bruta, di lavoro quotidiano e per le responsabilità che si sono sempre assunti, preservandone le donne, parla di ben altro che di condizione storiche di privilegio.
Eppure, nonostante questa pregiudiziale di partenza, ancora tutta da dimostrare nel suo significato effettivo, ciò che altrettanto rileva in questa definizione accademica è l’assoluta inattualità del concetto.
Ciò a cui dovrebbe contrapporsi “polemicamente” questo termine è, infatti, l’antica concezione dell’uomo e della donna esposta - nientemeno che nel IV° sec. A.C. – da Aristotele, nell’Etica Nicomachea e nella Politica, dove l’antico filosofo sosteneva che «il maschio è per natura superiore, mentre la femmina è inferiore, il maschio comanda, la femmina invece ubbidisce».
Aristotele tendeva a riconoscere, in tal modo, quelle differenze naturali che la tecnologia del tempo non occultava dietro ad un comodo pulsante elettronico; si trattava di sopravvivere in epoche difficili e violente e le donne, in questo, non erano sufficientemente attrezzate dalla natura.
Se si riesce a capire che anche le parole di Aristotele vanno contestualizzate alla propria epoca – risalente a 2.400 anni fa circa - nulla quaestio; piaccia o non piaccia il valore sociale della donna era, in quelle condizioni, largamente inferiore a quello maschile.
Ma il vero e grande paradosso è che il concetto di maschilismo non nasce e si afferma in quel contesto o nel successivo, bensì nella nostra comodissima epoca di uguaglianze forzate e di parità imposte per legge.
Veniamo, infatti, ai dati concreti dell’attualità, all’interno dei quali il senso di quella definizione ufficiale da dizionario trasmuta per dare luogo a costrutti semantici del tutto estranei ai suoi fondamenti.
Prendiamo, ad esempio, Anna Finocchiaro che, in un’intervista del 2006 si lamentava di non essere stata eletta Presidente della Repubblica: colpa del maschilismo – diceva lei – evidentemente convinta di essere la migliore dei migliori. Non le passava neanche per la testa che si sarebbe potuto scegliere altro o che altri fossero più adatti di lei.
Passiamo poi a quell’altra povera dimenticata della Carfagna; in un’intervista recente si dichiara “vittima del maschilismo” perché – secondo lei – le sue bizze sulla vicenda Bocchino e sulla politica condotta a Napoli dal suo partito sono state fatte passare per “capriccio femminile”. Fossi stata un uomo, sostiene, questo non sarebbe successo.
Poi, si viene a scoprire che la relazione con il prode Bocchino era vera e non inventata.
Attenzione, non stiamo parlando delle casalinghe di Voghera, icone della donna media sideralmente distante dal potere; eppure, nonostante ciò, entrambe queste campionesse del vittimismo militante riescono a dare al termine maschilismo il significato confacente alle proprie aspettative, ad utilizzarlo in modo strumentale.
La summa teologica dell’utilizzo proteiforme e strumentale dell’alibi maschilismo è, tuttavia, esemplarmente riassunto nelle considerazioni di una blogger – una delle tante in materia – che, guardando alla composizione delle testate giornalistiche on-line ha scoperto che lì non ricorre la parità statistica tra i sessi.
Horribile dictu, considerando che una norma non scritta, ma largamente praticata dai cultori del progresso egualitario, imporrebbe (ma sempre di imposizione "democratica" si tratterebbe) che la "società perfetta" debba essere simmetricamente composta, in tutti i suoi settori, di donne e di uomini in identica misura.
Di chi la colpa di questa trasgressione infame, secondo la blogger Giovanna Cosenza?
Lei, sinceramente e democraticamente, il beneficio del dubbio lo consente, ponendo la questione in termini interrogativi.
Giovanna Cosenza |
Insomma, siamo ben oltre il semplice sospetto; è una pratica certezza mascherata da dubbio.
Ora, mi piacerebbe chiedere alla blogger come mai lei non vada a perlustrare analoghe disparità statistiche tra gli elettricisti, ad esempio, o tra i falegnami o i tornitori. Perché nessuno ritiene questi settori d'attività "maschilisti"?
Ma, al di là delle incongruenze, la lamentazione della Cosenza si allinea a quelle di coloro che ritengono maschilista una distribuzione asimmetrica delle funzioni sociali, indipendentemente dalle ragioni che le hanno prodotte e che le determinano.
Naturalmente gli esempi al riguardo potrebbero essere infiniti, anche stando alle sole dichiarazioni pubbliche ricavabili da giornali, siti o blog.
Sulla base di questi soli tre esempi elementari cerchiamo, comunque, di ricostruire il significato di una parola utilizzata, con ogni evidenza, per mascherare quell'abituale surplus di vittimismo tipicamente femminile, legittimato e promosso dal femminismo.
Secondo la Finocchiaro, non attribuirle la carica di Presidente della Repubblica è stato un atto di maschilismo; l'idea che possano essere scelti altri al suo posto non la considera per nulla in quanto, evidentemente, lei si ritiene una spanna sopra a tutti gli altri.
In questo senso maschilismo è tutto ciò che contraddice le pretese di superiorità femminile.
Secondo la Carfagna, invece, maschilismo è ciò che induce chi le sta intorno a dubitare della sua coerenza politica; il fatto che, poi, lei si dimostri effettivamente coerente o incoerente sembra essere secondario.
In quest'altro senso maschilismo è ciò che si contrappone alla sua pretesa di immunità da valutazioni e giudizi, in quanto donna.
Secondo la Cosenza, infine, maschilismo è tutto ciò che non prevede la perfetta parità statistica a livello sociale (con i limiti e i distinguo di comodità già detti).
In questo terzo senso è maschilista tutto ciò che si identifica con il merito effettivo e con l'impegno individuale - fatto di fatica e sacrifici - a raggiungere posizioni di rilievo.
Come si può vedere, ognuna di queste tre testimonial delle presunte discriminazioni femminili utilizza il vocabolo "maschilismo" per trasferire le responsabilità dal livello individuale a quello astrattamente sociale (o socio-culturale); un sociologismo, insomma.
Un pò come quando si diceva che se la gente ruba o delinque la "colpa" è della società, mica una responabilità personale del singolo tizio.
Allo stesso modo, gli insuccessi, le inadeguatezze, i fallimenti o le incapacità femminili non sono da attribuirsi alla singola donna; è tutta colpa del maschilismo.
Non staremo a misurare la distanza che esiste tra la definizione ufficiale di maschilismo e la sua declinazione effettiva nel frasario quotidiano.
Mi limiterò ad osservare - dopo questo breve tragitto nelle strategie di affermazione femminile - che se diamo credito al senso ufficiale della parola, non mi sento e non sono un maschilista neanche volendolo.
Ma se stiamo alle storture di senso ed al mistificante trasferimento di responsabilità da una parte all'altra con cui viene utilizzato questo termine, mi proclamo, orgogliosamente e fermamente, maschilista a tutti gli effetti; dalla testa ai piedi.