«Quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare» (Hannah Arendt)
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Noi tutti viviamo nella rassicurante convinzione - anzi, nella pratica certezza - che la “Libertà” sia il valore su cui si fonda ed è strutturato il nostro mondo.
Effettivamente, quando disponiamo di tempo “libero” nessuno viene a dirci cosa dobbiamo o non dobbiamo fare; siamo “liberi” di uscire o meno di casa a nostro piacimento, di andare di qua o di là, di fare questo o quello, di frequentare un luogo piuttosto che un altro o, magari, entrambi e ancora di più.
In casa il telecomando – o, meglio, i telecomandi, ormai – sono lo scettro della “Libertà” domestica, la quale si realizza compiutamente attraverso la scelta del teleutente nell’alluvione di canali in chiaro, scuro, streaming, criptato, on demand, on line, da parabola, da card e da canone: insomma, una vera cuccagna.
E ancora, fatta eccezione per quelle forme di pedagogia sociale invasiva, pedante e neo-bacchettona che ci vorrebbe tutti salutisti/ambientalisti – ossia, tristemente dediti al conteggio scrupoloso delle calorie, delle gradazioni alcoliche, del colesterolo, del consumo energetico, dei livelli di CO2, dei rifiuti riciclabili e del numero di sigarette fumate – noi tutti possiamo condurre, in definitiva, gli stili di vita che più ci aggradano (salvo incappare in qualche sanzione pedagogica, ideata e imposta dai pubblici educatori).
Quando entriamo in un centro commerciale, poi, ci sembra di fare ingresso nel sancta sanctorum della “Libertà”; abbiamo trecentomila oggetti su cui esercitare le nostre scelte, trecentomila modi di esprimere le nostre preferenze, trecentomila bisogni da soddisfare, il quintuplo di desideri da realizzare e le soluzioni sono tutte lì, a nostra completa disposizione, in bella vista e a portata di mano.
Naturalmente servono soldi in tasca per godere di tutte queste libertà e, infatti, l’unità di misura della “Libertà” è data, in valuta corrente, dall'euro .
Saremmo, tuttavia, ingenerosi e parziali se ci limitassimo a dire che le nostre “libertà” esistono solo in veste di consumatori, nel tempo "libero" e sul mercato delle merci.
Certo, molti spiriti modesti si sentono “liberi” soprattutto per quello, ma molti altri sostengono che invece siamo “liberi” perché abbiamo diritto di pensare ciò che vogliamo ed anche di esprimere pubblicamente ciò che pensiamo. E’ tutto previsto e santificato nella nostra Costituzione, dove è infatti sancito il diritto di chiunque a manifestare “liberamente” il proprio pensiero.
La chiamano "Libertà" di parola la quale, a sua volta, presuppone come data la "Libertà" di pensiero.
C'è chi sostiene - e non a torto - che oggi disponiamo di uno strumento che ci rende ancora più "liberi", in quanto consente a tutti, ma proprio a tutti, di esercitare questo tipo di "Libertà": lo strumento in questione è la rete, il grande tazebao planetario sul quale ciascuno di noi può scrivere e vedere rappresentato il proprio modo di essere, di vedere e di sentire le cose. Di più: si può fare informazione e si può fare opinione on-line, entrando in competizione, in modi più o meno autorevoli, con un'editoria professionale spesso asservita agli interessi di questo o quel gruppo di potere.
Beh, la teoria è molto bella, indubbiamente, ma la pratica sembra essere decisamente molto meno chiara e luminosa di come viene descritta; e, se è vero che nella scelta delle merci - tra le quali ci sono anche le notizie - abbiamo tutte le "libertà" di questo mondo, non altrettanto può dirsi per le opinioni.
Provate infatti ad andare in giro per il web a sostenere le ragioni della questione maschile - per esempio - ma fatelo senza alzare i toni, senza assumere atteggiamenti radicali e con il dovuto rispetto per gli argomenti contrari; anche quando questi «argomenti contro» si riducono a banali negazioni della realtà delle cose, a dei «no, non è vero» urlati in formato elettronico, per sopraffare le vostre ragioni che entrano in conflitto con il dogma intangibile della vulgata dominante.
Quello che vi può capitare - ve lo dico per esperienza diretta, protratta negli anni - va da un minimo ad un massimo predefiniti.
Il minimo è ciò che, per amore di sintesi, potremmo definire come medicalizzazione del dissenso; ossia, se vedete le cose in un certo modo piuttosto che nell'altro c'è chi arriverà alla conclusione che siete malati e come tali sarete trattati.
Il massimo può essere riassunto in una parola sola, semplice e conclusiva:«censura».
Personalmente sono stato considerato eretico - e, quindi, espulso (in gergo: bannato) - a cominciare dai luoghi di discussione più sospettabili di faziosità, sino ai più insospettabili: ultimi in ordine di tempo, il sito Libertiamo - censura prima parziale e poi definitiva - ed il sito Legno storto (censura immediata e definitiva). Per una singolare eterogenesi dei fini, proprio quei siti web, tra i tanti, che si ergono ad impavidi paladini della "Libertà" di parola.
Nel mezzo espulsioni esplicitamente dogmatiche come quella dal blog di Marina Terragni, a suo tempo da siti di discussione come Riflessioni ed altri analoghi nonché, last but not least, inviti espliciti a cambiare aria persino da un sito sulla QM di cui, per carità di patria, tacerò il nome.
Certo, un'esperienza personale può essere indicativa di tutto e di nulla; si potrebbe anche pensare che meritassi quelle censure per il modo intollerante di esprimermi o per un frasario incivile e inammissibile; non è così ma lo si può "liberamente" pensare. Rimane, in ogni caso, una piccolezza.
Sennonché, la sensazione soggettiva che la "Libertà d'opinione" sia sostanzialmente una pia illusione moderna - una sorta di "Libertà" vigilata da un esercito di secondini del pensiero dominante - è suffragata da numerosi episodi pubblici, anche di grande rilevanza, nei quali appare evidentissimo che esiste un pensiero unico che, almeno su certe questioni, non ammette contraddittori; anzi, su cui si agita lo spettro del reato d'opinione.
Potrei citare il muro di gomma della storiografia dominante, che non ammette deviazioni dalle verità ufficiali sull'Olocausto e sulla resistenza italiana, ad esempio, anche se queste revisioni non mirano a ribaltare giudizi etici sui fatti ma solo a restituirli alla loro verità storica documentata. Che dire, all'opposto, della condanna penale subita in vita dalla Fallaci, a causa della sua asserita e discriminante islamofobia? Oppure potrei citare la negazione del diritto di parola ai Cattolici, in nome e per conto di una "Libertà" di espressione obiettivamente strabica, per cui non tutti ne avrebbero diritto allo stesso modo. Si potrebbe pensare, ancora, all'ostracismo subìto da intellettuali di grande levatura e di diversa estrazione culturale - come Massimo Fini, Marcello Veneziani o Giampaolo Pansa, ad esempio - che difficilmente sentiremo esprimersi nei programmi televisivi d'approfondimento serale, a causa delle loro opinioni disallineate, scomode e controcorrente.
L'elenco potrebbe essere ancora lungo, spaziando da un capo all'altro dell'ampio territorio, mai del tutto esplorato, delle "libere" opinioni, che poi così "libere" non sono alla prova di diversi fatti.
Ma, in definitiva, ciò che intendo perorare con tanto spreco di parole è il valore della "Libertà" che, non a caso, nobilito della maiuscola e del virgolettato in quanto valore irrinunciabile.
"Libertà" che non significa affatto poter fare ciò che si vuole o acquistare ciò che si vuole o andare dove si vuole; quelli sono atti di volontà, non di "Libertà".
Il valore vero della "Libertà" sta nel poter pensare ciò che si vuole e nel poterlo anche dire, liberamente, appunto, alla sola condizione del rispetto degli altri e delle loro opinioni, anche quando non ci piacciono.
Non certo un valore assoluto - per definizione stessa del concetto - ma neanche talmente relativo da essere garantito solo a certe condizioni, solo a qualcuno e soltanto per certi scopi di parte.
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Noi tutti viviamo nella rassicurante convinzione - anzi, nella pratica certezza - che la “Libertà” sia il valore su cui si fonda ed è strutturato il nostro mondo.
Effettivamente, quando disponiamo di tempo “libero” nessuno viene a dirci cosa dobbiamo o non dobbiamo fare; siamo “liberi” di uscire o meno di casa a nostro piacimento, di andare di qua o di là, di fare questo o quello, di frequentare un luogo piuttosto che un altro o, magari, entrambi e ancora di più.
In casa il telecomando – o, meglio, i telecomandi, ormai – sono lo scettro della “Libertà” domestica, la quale si realizza compiutamente attraverso la scelta del teleutente nell’alluvione di canali in chiaro, scuro, streaming, criptato, on demand, on line, da parabola, da card e da canone: insomma, una vera cuccagna.
E ancora, fatta eccezione per quelle forme di pedagogia sociale invasiva, pedante e neo-bacchettona che ci vorrebbe tutti salutisti/ambientalisti – ossia, tristemente dediti al conteggio scrupoloso delle calorie, delle gradazioni alcoliche, del colesterolo, del consumo energetico, dei livelli di CO2, dei rifiuti riciclabili e del numero di sigarette fumate – noi tutti possiamo condurre, in definitiva, gli stili di vita che più ci aggradano (salvo incappare in qualche sanzione pedagogica, ideata e imposta dai pubblici educatori).
Quando entriamo in un centro commerciale, poi, ci sembra di fare ingresso nel sancta sanctorum della “Libertà”; abbiamo trecentomila oggetti su cui esercitare le nostre scelte, trecentomila modi di esprimere le nostre preferenze, trecentomila bisogni da soddisfare, il quintuplo di desideri da realizzare e le soluzioni sono tutte lì, a nostra completa disposizione, in bella vista e a portata di mano.
Naturalmente servono soldi in tasca per godere di tutte queste libertà e, infatti, l’unità di misura della “Libertà” è data, in valuta corrente, dall'euro .
Saremmo, tuttavia, ingenerosi e parziali se ci limitassimo a dire che le nostre “libertà” esistono solo in veste di consumatori, nel tempo "libero" e sul mercato delle merci.
Certo, molti spiriti modesti si sentono “liberi” soprattutto per quello, ma molti altri sostengono che invece siamo “liberi” perché abbiamo diritto di pensare ciò che vogliamo ed anche di esprimere pubblicamente ciò che pensiamo. E’ tutto previsto e santificato nella nostra Costituzione, dove è infatti sancito il diritto di chiunque a manifestare “liberamente” il proprio pensiero.
La chiamano "Libertà" di parola la quale, a sua volta, presuppone come data la "Libertà" di pensiero.
C'è chi sostiene - e non a torto - che oggi disponiamo di uno strumento che ci rende ancora più "liberi", in quanto consente a tutti, ma proprio a tutti, di esercitare questo tipo di "Libertà": lo strumento in questione è la rete, il grande tazebao planetario sul quale ciascuno di noi può scrivere e vedere rappresentato il proprio modo di essere, di vedere e di sentire le cose. Di più: si può fare informazione e si può fare opinione on-line, entrando in competizione, in modi più o meno autorevoli, con un'editoria professionale spesso asservita agli interessi di questo o quel gruppo di potere.
Beh, la teoria è molto bella, indubbiamente, ma la pratica sembra essere decisamente molto meno chiara e luminosa di come viene descritta; e, se è vero che nella scelta delle merci - tra le quali ci sono anche le notizie - abbiamo tutte le "libertà" di questo mondo, non altrettanto può dirsi per le opinioni.
Provate infatti ad andare in giro per il web a sostenere le ragioni della questione maschile - per esempio - ma fatelo senza alzare i toni, senza assumere atteggiamenti radicali e con il dovuto rispetto per gli argomenti contrari; anche quando questi «argomenti contro» si riducono a banali negazioni della realtà delle cose, a dei «no, non è vero» urlati in formato elettronico, per sopraffare le vostre ragioni che entrano in conflitto con il dogma intangibile della vulgata dominante.
Quello che vi può capitare - ve lo dico per esperienza diretta, protratta negli anni - va da un minimo ad un massimo predefiniti.
Il minimo è ciò che, per amore di sintesi, potremmo definire come medicalizzazione del dissenso; ossia, se vedete le cose in un certo modo piuttosto che nell'altro c'è chi arriverà alla conclusione che siete malati e come tali sarete trattati.
Il massimo può essere riassunto in una parola sola, semplice e conclusiva:«censura».
Personalmente sono stato considerato eretico - e, quindi, espulso (in gergo: bannato) - a cominciare dai luoghi di discussione più sospettabili di faziosità, sino ai più insospettabili: ultimi in ordine di tempo, il sito Libertiamo - censura prima parziale e poi definitiva - ed il sito Legno storto (censura immediata e definitiva). Per una singolare eterogenesi dei fini, proprio quei siti web, tra i tanti, che si ergono ad impavidi paladini della "Libertà" di parola.
Nel mezzo espulsioni esplicitamente dogmatiche come quella dal blog di Marina Terragni, a suo tempo da siti di discussione come Riflessioni ed altri analoghi nonché, last but not least, inviti espliciti a cambiare aria persino da un sito sulla QM di cui, per carità di patria, tacerò il nome.
Certo, un'esperienza personale può essere indicativa di tutto e di nulla; si potrebbe anche pensare che meritassi quelle censure per il modo intollerante di esprimermi o per un frasario incivile e inammissibile; non è così ma lo si può "liberamente" pensare. Rimane, in ogni caso, una piccolezza.
Sennonché, la sensazione soggettiva che la "Libertà d'opinione" sia sostanzialmente una pia illusione moderna - una sorta di "Libertà" vigilata da un esercito di secondini del pensiero dominante - è suffragata da numerosi episodi pubblici, anche di grande rilevanza, nei quali appare evidentissimo che esiste un pensiero unico che, almeno su certe questioni, non ammette contraddittori; anzi, su cui si agita lo spettro del reato d'opinione.
Potrei citare il muro di gomma della storiografia dominante, che non ammette deviazioni dalle verità ufficiali sull'Olocausto e sulla resistenza italiana, ad esempio, anche se queste revisioni non mirano a ribaltare giudizi etici sui fatti ma solo a restituirli alla loro verità storica documentata. Che dire, all'opposto, della condanna penale subita in vita dalla Fallaci, a causa della sua asserita e discriminante islamofobia? Oppure potrei citare la negazione del diritto di parola ai Cattolici, in nome e per conto di una "Libertà" di espressione obiettivamente strabica, per cui non tutti ne avrebbero diritto allo stesso modo. Si potrebbe pensare, ancora, all'ostracismo subìto da intellettuali di grande levatura e di diversa estrazione culturale - come Massimo Fini, Marcello Veneziani o Giampaolo Pansa, ad esempio - che difficilmente sentiremo esprimersi nei programmi televisivi d'approfondimento serale, a causa delle loro opinioni disallineate, scomode e controcorrente.
L'elenco potrebbe essere ancora lungo, spaziando da un capo all'altro dell'ampio territorio, mai del tutto esplorato, delle "libere" opinioni, che poi così "libere" non sono alla prova di diversi fatti.
Ma, in definitiva, ciò che intendo perorare con tanto spreco di parole è il valore della "Libertà" che, non a caso, nobilito della maiuscola e del virgolettato in quanto valore irrinunciabile.
"Libertà" che non significa affatto poter fare ciò che si vuole o acquistare ciò che si vuole o andare dove si vuole; quelli sono atti di volontà, non di "Libertà".
Il valore vero della "Libertà" sta nel poter pensare ciò che si vuole e nel poterlo anche dire, liberamente, appunto, alla sola condizione del rispetto degli altri e delle loro opinioni, anche quando non ci piacciono.
Non certo un valore assoluto - per definizione stessa del concetto - ma neanche talmente relativo da essere garantito solo a certe condizioni, solo a qualcuno e soltanto per certi scopi di parte.