Il falso principio di libertà

L'eco successiva alla pubblicazione del libro "L'Italia fatta in casa" - di cui si è fatto cenno nell'articolo precedente - ed il dibattito pubblico che ne è seguito danno il chiaro segno della profonda frattura ideologica che, attraverso la concezione del ruolo e della funzione svolta dalla famiglia nel contesto sociale, divide gli schieramenti tra favorevoli e contrari alla conservazione dell'istituto familiare così come lo abbiamo sempre conosciuto.
Ai nostri fini questa suddivisione riflette - anche e soprattutto - il più ampio dibattito storicamente imposto dal femminismo sui ruoli sessuali, all'interno del nucleo familiare e non solo; sul tema dell'indipendenza femminile, sempre più in attrito con il sistema dei vincoli parentali ed affettivi; oltre che sulle emergenti necessità di adattamento maschile all'alterazione del rapporto tra i sessi, che di questo mutamento del quadro culturale è la conseguenza meno visibile e discussa dalla pubblica opinione ma, spesso, anche l'effetto più negativo.

E' obiettivamente difficile dare conto, in un singolo e semplice articolo, della complessità di un dibattito che ha visto coinvolti intellettuali, economisti e politici - da N. Porro a L.Amicone, da L. Pesenti a M. Vitale - con varietà di posizioni e commenti, sino ai giorni più recenti; nel rinviare ai diversi contributi leggibili ai riferimenti linkati, oltre a quanto già illustrato in precedenza, tenterò di delineare i termini essenziali della querelle, per trarne spunti di riflessione.

La famiglia è un bene o un male per la società'?
A questo interrogativo di fondo hanno cercato di dare risposte politicamente orientate i già menzionati Alesina ed Ichino, risposte che l'economista F, Giavazzi riassume, dalle pagine del Corriere Economia con un articolo dedicato del novembre scorso. Secondo questi economisti, le famiglie italiane avrebbero sopperito ad una carenza di welfare di cui lo Stato (la collettività) dovrebbe, invece, secondo la loro prospettiva politica, farsi carico; guardando ai dati si osserva che i veri ammortizzatori sociali, anche in un periodo di profonda crisi economica come l'attuale, sono rappresentati dalla famiglia (per i dati, si rinvia all'articolo).
Quali sono - si chiede Giavazzi - "i vantaggi, e anche i costi, della scelta (...) di affidare alle famiglie, anziché al Welfare pubblico, un ruolo tanto importante nella tutela di chi perde il lavoro, di chi è anziano, dei bisognosi?"
Al riguardo, in linea con le tesi sostenute nel libro già menzionato, Giavazzi non ha dubbi: "vi sono almeno quattro conseguenze: la scarsa mobilità geografica che dà luogo al fenomeno che Edward Banfield....cinquant' anni fa definì «familismo amorale»; il precariato, cioè un mercato del lavoro diviso fra un gruppo di super-tutelati e un esercito senza alcuna protezione; la difficoltà delle nostre imprese di crescere e un peso straordinario a carico delle donne".

In realtà, è proprio quest'ultimo punto ad essere decisivo nella concezione economicista della famiglia, come spiega lo stesso Sen. Ichino in un'intervista, delineando il progetto di riforma sociale che anima la sua riflessione di economista di sinistra: "Se la società italiana fosse fatta al 50 per cento da famiglie in cui l’uomo lavora e la donna sta a casa, e al restante 50 per cento da famiglie in cui la donna lavora e l’uomo sta a casa, diremmo che ognuno sceglie come vuole e che non c’è alcuna discriminazione. Ma nel nostro caso non è così". Sicché, prosegue l'economista, "...poiché non è possibile che le donne oltre a esser motore della casa siano anche motore del mercato, bisogna che gli uomini lavorino di meno fuori casa".
In pratica, il vero problema dell'economista (in accordo con Alesina, Giavazzi e con la sinistra politica) non è la famiglia, la sua tenuta nella crisi o la proposta di ampliamento del welfare, nel tradizionale solco ideologico dell'assistenzialismo socialista; il suo vero problema è quello di promuovere il lavoro femminile come ricetta miracolosa dello sviluppo.
O - per meglio esplicitare le pulsioni ideologiche che sovrintendono posizioni come queste - l'affermazione di un astratto principio di uguaglianza che con la crisi, la crescita economica e lo sviluppo poco, davvero, hanno a che vedere; in caso contrario, bisognerebbe saper dimostrare, con dati e documentazione a corredo, per quale motivo la maggiore occupabilità femminile, a fronte di una occupabilità maschile inversamente proporzionale e, quindi, inferiore, dovrebbe ed in che modo essere di traino alla crescita economica.
A meno di non invocare teorie sulla superiorità della "razza femminile", infatti, non c'è alcuna evidenza che attesti questo presupposto; si tratta solo di ideologia, ingegneria sociale e supposizioni astratte.

Ma - al di là di queste considerazioni di merito che, peraltro, non appaiono in alcun commento - la risposta più significativa alle progettualità politiche sulla famiglia è stata data, paradossalmente, proprio da una donna: la giornalista P. Liberace.
Commentando la questione, è stata soprattutto lei ad inserire nel dibattito la questione, tutt'altro che marginale, del "falso principio di libertà che vuole far lavorare le donne fuori casa".
E' vera libertà quella che propone un modello standardizzato di comportamenti, identico per tutte le donne?
Secondo la giornalista, anche da una prospettiva prettamente femminile, non è così.
"È significativo - osserva - che tra [le] potenzialità [femminili] non venga considerata - anzi, che da esse venga esplicitamente esclusa - quella materna: intesa non come mera facoltà di generare, ma come capacità di accudire, educare e dedicarsi ai figli.....la scelta delle donne si suppone libera se si indirizza contro queste opzioni....Libertà, insomma, è libertà di aderire a una strada precisa: mentre la preferenza per altre strade viene guardata con sospetto, se non addirittura tacciata di essere frutto di una costrizione".
Se si guarda ai dati di una ricerca condotta dalla ricercatrice britannica C. Odone, ciò che vogliono le donne appare distante anni luce dai dogmi "di chi attribuisce alle donne intenzioni uniformemente orientate verso un obiettivo dettato piuttosto da istanze estrinseche.....Solo il 12 per cento tra le madri intervistate desiderava un lavoro a tempo pieno, mentre il 31 per cento aspirava a non lavorare affatto. Allargando lo sguardo a tutte le donne, in assenza di vincoli economici, solo una su cinque avrebbe continuato a lavorare a tempo pieno, mentre solo il 6 per cento delle lavoratrici part-time sarebbe stata disposta a prolungare il suo orario di lavoro. Non solo le madri, dunque, ma le donne in genere hanno priorità diverse da quelle considerate per loro fondamentali nell’opinione pubblica."

Appare utile, ancora, menzionare anche le osservazioni di L. Pesenti che, in un articolo del 9 dicembre scorso, ribalta i termini della questione: "Se il migliore dei mondi possibili è quello in cui la famiglia non conta più nulla, la crisi delle famiglie non dovrebbe avere conseguenze rilevanti. E invece i dati di ricerca dicono esattamente il contrario."
Numerose le statistiche che attestano le negative conseguenze sociali per la rottura dei legami familiari, esposte da Pesenti: "Le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate regolarmente, soffrono di depressioni e stress psicologico in maniera 2,5 volte superiore. I padri divorziati, per contro, hanno percentuali di mortalità superiori alla norma di oltre il 70%, e sono maggiormente esposti al rischio di una qualche forma di dipendenza....Se il 40% dei bambini inglesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75% tra quelli che vivono con un solo genitore. Il 16% di quelli tra i 5 e i 15 anni di età soffre di disturbi psichici, contro l’8% dei loro coetanei. I figli di genitori divorziati hanno una probabilità tre volte superiore di andar male a scuola, il doppio dei rischi di salute e in particolare di malattie psicosomatiche.....Sara e Gary Sandefur, ricercatori ad Harvard, hanno effettuato uno studio su 25mila bambini, descrivendo risultati scolastici mediamente peggiori, minori aspirazioni a proseguire gli studi, e maggiori tassi di ritiro scolastico proprio tra i figli che vivono con un solo genitore."

In conclusione, si potrebbe affermare che la strada dell'uguaglianza tra i sessi, a spese della famiglia, è lastricata di buone intenzioni; come quella per l'inferno.