Cosa sia l'illusionismo lo sappiamo abbastanza bene; si tratta della tecnica con la quale si riesce a far apparire come vere situazioni che non lo sono affatto.
Giochi di prestigio, insomma, che non sorprendono più neanche i bambini i quali sono, semmai, sempre più smaliziati nei confronti di chi vorrebbe fargli credere una cosa per un'altra.
Ciò che, invece, continua a sorprendere per il singolare ribaltamento di questo banale e consolidato principio di non contraddizione con la realtà è che con le cifre che riguardano il mondo femminile si riesce a fare di tutto ed a far credere di tutto, attraverso giochi di prestigio informativi di cui nessuno si preoccupa di verificare la fondatezza, persino in assenza della semplice verosimiglianza delle statistiche che vengono proposte; in questo caso e solo in questo caso si va, sembra doveroso andare, sulla fiducia, senza alcun tipo di dubbio.
L'occasione dell'ottomarzo era troppo ghiotta per farla passare senza quella cifra in più di vittimismo rispetto al solito e, così, nei giorni passati ci siamo sentiti cannoneggiare, più del solito, ad esempio, dal carosello delle statistiche sulla "disparità in busta paga" che affligerebbe il "sesso debole" con intollerabili e inaccettabili discriminazioni a suo danno.
La questione sembra occupare considerevolmente anche i cervelloni di Bruxelles, dediti alla holy mission di sanare le ferite discriminatorie del mondo e promuovere la resurrezione delle donne attraverso le politiche di genere, come documenta la rivoluzionaria in rosa, Anna Zavaritt, dal suo rivoluzionario blog sul Sole 24ore.
Il "gender pay gap", ovvero il (presunto) divario retributivo tra donne e uomini sarebbe, tanto per le giornaliste ed i giornalisti in rosa quanto per la Commissione europea e molti altri euroburocrati, una vera e propria discriminazione di genere.
Qualcosa su cui si potrebbe giurare, assicurano.
Ora, l'interrogativo che mi vado ponendo da diverso tempo e che sembra attanagliare solo me e pochissimi altri sull'argomento, può essere formulato dopo le seguenti premesse.
Occorre ricordare e premettere che quando si parla di retribuzioni e busta paga si parla di lavoro dipendente, come apparirà del tutto ovvio; inoltre, dato che le retribuzioni del lavoro dipendente sono statuite e disciplinate dagli arcinoti contratti collettivi nazionali di lavoro e dato, ancora, che nessun CCNL di nessuna categoria prevede, neanche lontanamente, una diversificazione di salari o stipendi su base sessuale, la domanda dovrebbe nascere spontanea: come si fa a sostenere che, a parità di qualifica e mansioni, le donne guadagnano meno degli uomini?
Il trucco da qualche parte deve pur esserci, in quanto il "fatto" in sé è smentito dal diritto vigente e, in particolare, dal diritto del lavoro esistente, da decenni, nel nostro Paese che è fondato, basilarmente, sul principio della contrattazione collettiva (quindi, non personalizzata).
Andiamo a verificare questo gap retributivo tra donne e uomini che sarebbe attestato, statisticamente, dalla presunta oggettività dei numeri.
A guardare bene la questione ha quasi del surreale, per non dire del comico.
"Secondo i dati Eurostat il differenziale è del 9%, ma sale al 16% secondo l'Eurispes, al 23% in un'indagine sulla famiglia della Banca d'Italia e al 26,8% secondo un'elaborazione Ugl su dati Istat" - come si poteva leggere sul Sole 24ore, il 3 febbraio 2009.
Sino al contrordine del successivo 19 giugno, quando il Corriere arriva provvisoriamente a sostenere - sulla base di uno studio condotto dall'osservatorio sulla Gestione della diversità dell' università Bocconi in collaborazione con Hay group - che "le donne non sono meno pagate degli uomini. Guadagnano un po' meno - un pizzico, uno zic, un qb - ma le discriminazioni vere sono un' altra cosa. Perché alla fine il taglio alle buste paga rosa si ferma al 2%. Soldi veri, è chiaro. Che potrebbero comprare un rossetto, un pannolino, un cinema in più. Ma pur sempre una penalizzazione più contenuta rispetto al meno 7% stimato dall' Istat nel 2007, al meno 17% valutato da Unioncamere nel 2008, al taglio dell' 8,75% annunciato dall' Isfol nel 2009 o al meno 16% accertato (......) dall' Eurispes."
Senonché, forse ignaro di tanti magmatici precedenti, Cesare Giuzzi arriverà ad affermare apoditticamente, dalle pagine del Corriere di Milano, il 4 marzo scorso, che "...a parità di qualifica, un’impiegata [milanese] guadagna il 34 per cento in meno rispetto a un collega maschio".
Esilarante.
Del resto, si era in prossimità dell'ottomarzo....
Ma dove si trova la verità o qualcosa che gli assomigli?
Qualche spiraglio lo troviamo, appena accennato, quasi tratteggiato perché non abbia eccessiva evidenza, già nell'articolo del febbraio 2009: la disparità retributiva ci sarebbe in quanto"....non c'è tempo per gli straordinari, niente premi aziendali legati alla presenza, pochissimi benefit", chiarisce il capo dipartimento Isabella Rauti delle Pari Opportunità.
Traduzione: le donne guadagnano meno perché fanno meno straordinari degli uomini, perché fanno più assenteismo di loro e perché prendono il part-time molto più degli uomini.
Insomma, le donne guadagnano meno degli uomini perché (e quando) lavorano meno degli uomini; in tutti gli altri casi guadagnano, secondo la ferrea disciplina del contratto di lavoro, esattamente la stessa cosa.
Per dirla con altre parole: quando ci raccontano che a parità di qualifica e di mansione le donne guadagnano meno degli uomini ci stanno raccontando, in realtà, una balla fenomenale che non si ritiene di dover smentire, neanche in nome del principio deontologico della correttezza dell'informazione e della sua rispondenza ai fatti obiettivi riscontrati (dovere di verità).
La conferma - sempre molto sussurrata, affinché non abbia a sapersi con chiarezza - è data anche dall'articolo del 19 giugno già linkato, che faceva scendere il gap retributivo al 2%, dove si ammette che le rilevazioni fatte generalmente sul tema scontano l'approssimazione di considerare sullo stesso piano situazioni completamente diverse; ad esempio, conteggiare come minor retribuzione la decurtazione stipendiale del part-time o dell'assenteismo. "La novità è che non ci siamo fermati a valutare la differenza tra lo stipendio medio delle donne e degli uomini [come si fa abitualmente per il gioco illusionistico delle statistiche pilotate, n.d.e.] ma siamo andati a vedere quanto guadagnano esattamente un uomo e una donna a parità di qualifica, mansione, inquadramento, anzianità di servizio», racconta Simona Cuomo, coordinatrice dell' Osservatorio."
Sembrerebbe una scoperta rivoluzionaria e, invece, è la logica scontata ed ordinaria con la quale si dovrebbero condurre rilevazioni e comparazioni di questo tipo.
Il risultato ottenuto è quello già indicato: con buona pace delle lamentatrici (e dei lamentatori al traino) che infestano il mondo dell'informazione, quello delle statistiche pilotate ed i politici di genere, il differenziale retributivo tra donne e uomini nel mondo del lavoro (dipendente) praticamente non esiste e, se esiste, c'è per l'ovvio motivo che gli stipendi sono, contrattualmente, legati a parametri oggettivi come la presenza, l'anzianità di servizio e la prestazione di lavoro straordinario.
In buona sostanza, ci si dedica alla manipolazione delle rilevazioni statistiche, con gli sconclusionati esiti di cui sopra, al solo scopo di far apparire, illusionisticamente, una cosa per un'altra.
Soprattutto, allo scopo di "pompare" - con giochi di prestigio numerici - un vittimismo femminile che ha sempre meno ragioni di essere accampato ma che viene sempre più fomentato dal mondo dei media e da discutibili e manipolatorie rappresentazioni della realtà sociale.
In conclusione, la questione propagandata del gender pay gap ricorda molto da vicino "la statistica del pollo" targata Trilussa.
E la cosa sconfortante è che c'è pure chi ci crede come se fosse tutto vero.....