Chi ce l'ha più lungo





Non ricordo esattamente dove l'ho letto - poco tempo fa - e chi abbia espresso questo concetto.
Ricordo solo che doveva trattarsi di una manager, di quelle raccomandate dallo Stato per occupare poltrone nei cda delle società per azioni; oppure una giornalista, che parlava delle riunioni di redazione; o, forse, ancora, doveva trattarsi di una di quelle politiche pescate dal nulla che parlava delle riunioni di partito o roba del genere.
Poco importa chi fosse e di quale contesto si lamentasse.
La cosa rilevante è che - manager, giornalista, politicante o cos'altro fosse - commentava con queste parole la sua partecipazione ai consessi di cui sopra: «in queste riunioni - lamentava la sedicente derelitta - gli uomini sembra che facciano sempre a chi ce l'ha più lungo».
Faro della Vittoria - Trieste
Il faro con il raggio più lungo d'Europa
Caspita, mica è poco.
Talché, stando ai canoni uno dovrebbe presumibilmente inorridire alla sola idea e allargarsi in uno sguardo colmo di gratitudine, ammirazione e speranza per cotanta saggezza femminile diffusa a mezzo stampa.
Saggezza che, com'è noto, non può fare a chi ce l'ha più lungo per mancanza di instrumentum atto allo scopo ma che - così sembra doversi desumere - anche ce l'avesse per sopravvenuti cambi chirurgici di stagione non lo farebbe mai e poi mai in virtù di sé stessa.
Saggezza che, quindi, dovrebbe evidentemente ascriversi alla mancanza dell'instrumentum il quale, per sua intima natura, sembra in grado di ottenebrare la mente del titolare e da instrumentum sementis (o instrumentum copulandi) si trasformerebbe nel più banale e sozzo instrumentum diaboli.
Infatti, i più illuminati tra gli illuminati - e non solo tra le povere e miserande donne in carriera - hanno particolarmente in odio la barbarie fallocratica, dove con fallocrazia deve intendersi qualcosa di assolutamente indeterminato (io ancora non ho capito che significa) ma che deve, con ogni evidenza, avere a che fare con la semplice titolarità originaria del fallo (l'instrumentum di cui sopra) perché si realizzi l'odiata barbarie.
Bene.
Senza saperlo, quel giorno la poveretta in questione aveva messo il ditino, saggio (forse) ma sprovveduto assai, tra le pieghe di una sua inadeguatezza personale (ma anche collettiva, in quanto donna) ritenendola - e spacciandola - al contrario, per una forza (o, se si preferisce, spacciandola appunto per una forma di solidale e universalistica saggezza).
Quella sua metafora dal significato così immediatamente intuitivo, infatti, era la colorita traduzione di una incapacità - o di un'avversione ideologicamente coltivata - ad accettare le regole della competizione.
Com-pe-ti-zio-ne, esatto.
Infatti la tizia aveva ragione, senza ombra di dubbio; noi uomini abbiamo l'attitudine naturale a misurarci l'uno con l'altro.
Da ragazzi con le misure del pisello, da giovani con le prestazioni sportive e con il numero e la qualità di scopate "vinte", da adulti con le rivalità che scaturiscono dalla vita sociale, economica e di relazione, da vecchi con l'insipienza delle illusioni giovanili e con la generale mancanza di saggezza; nel mezzo, a condimento di tutto questo, c'è l'amore per l'avventura, il rischio, l'agone ed il primato.
E c'è la capacità, tutta maschile, di darsi delle "regole di ingaggio".
Altro che barbarie!
Senza tutta questa fallocrazia - se questo è il suo significato - non ci sarebbero stati sviluppo e civiltà, nessuno avrebbe cercato i propri limiti, nessuno li avrebbe superati, nessuno sarebbe stato in grado di misurarsi con le forze ostili della natura, con le difficoltà a volte insormontabili del pensiero astratto e della scienza, con la scarsità delle risorse, con le sfide della tecnica, e i migliori non sarebbero mai emersi dal buio indistinto della massa.
Saremmo ancora materia bruta timidamente nascosta nel fogliame di un mondo selvaggio.
Ma guardateli i capannelli di persone che socializzano e guardate come tendono, spontaneamente, a dividersi tra affinità maschili ed affinità femminili.
Quando conversano tra loro, attraendosi, le femmine cercano sempre rassicurazioni reciproche e affettuose conferme, mirano a stabilire il "giusto per tutti", una misura collettiva in cui le differenze individuali scompaiano, qualcosa di superiore a cui aderire; l'oggetto del loro interesse non è mai divisivo ma comunitario.
Quando siamo noi maschi ad intrattenerci nella discussione, al contrario, tendiamo sempre a dividerci tra chi la pensa in un modo e chi nell'altro; per questo l'oggetto prevalente del nostro interesse è spesso lo sport o la politica, dove le differenze individuali emergono marcatamente e senza scampo, anche se in modo più o meno controllato.
Nessuno più di coloro che seguono, trattano e studiano la questione maschile dovrebbe esserne consapevole.
I femminismi, pur con tutte le loro divisioni teoriche, hanno creato, consolidato e cementato la solidarietà tra donne; al punto tale che da destra o da sinistra, dall'alto o dal basso che vengano, finiscono per essere sempre solidali su tutto ciò che le riguarda, un muro di gomma.
I movimenti maschili o quelli dei padri separati, al contrario, riescono a dividersi su tutto, l'individualismo regna sovrano e ognuno cerca di fare il capo di sé stesso; un insieme disorganizzato e multiforme di pennuti capitribù, ciascuno convinto di essere il migliore, il più ganzo, il più dotato, di avercelo più lungo degli altri, appunto.
A me tutto questo non dispiace, lo considero il prezzo necessario da pagare alla competitività maschile, a condizione che conduca prima o poi alla selezione dei migliori senza arenarsi nella pura e semplice anarchia.
Bisogna, tuttavia, anche saper riflettere su ciò che si contrappone in alternativa al principio della competitività.
Che poi ha un nome definito e si chiama principio della cooperazione.
Due principi - uno maschile, l'altro femminile - su cui si dividono, da decenni, le riflessioni filosofiche, storiografiche e politologiche che aspirano ad assegnare all'uno o all'altra il primato morale.
La società competitiva conduce al darwinismo sociale lamentano gli uni.
La società cooperativa non porta da nessuna parte
, rispondono con buone e documentate ragioni gli altri.
Senza avvedersi che tanto la competizione quanto la cooperazione sono ingredienti entrambi necessari alla vita degli esseri umani.
Ma ciascuna nel proprio ambito.
Sicché quella tizia da cui siamo partiti non avrebbe dovuto chiedersi come mai gli uomini facciano sempre a gara a chi ce l'ha più lungo.
Doveva più opportunamente chiedersi: «...che cavolo ci faccio io, animo sensibile e cooperativo, in un luogo di quotidiana competizione....?»






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