Sul principio d'autorità




Appartengo ad una generazione che già non si alzava più in piedi quando il professore faceva ingresso nell’aula, non mi sono mai rivolto a qualcuno usando l’appellativo "eccellenza” ed ho imparato sin da ragazzo a declinare consapevolmente i miei diritti di cittadinanza al cospetto di qualunque autorità pubblica; sia che si trattasse di una commissione di concorso, dell’anagrafe tributaria o di una pattuglia della stradale.
Tutto questo è un bene o un male?
Erano migliori dei nostri quei tempi in cui per atto di deferenza ci si alzava all'ingresso dell’insegnante o durante i quali, per lo stesso motivo, i modi e i toni davanti ad un pubblico ufficiale si affievolivano sino a rasentare la sottomissione? e quelle generazioni precedenti vivevano veramente meglio di oggi? era davvero quella una società più armoniosa e “libera” dell'attuale?
Questi interrogativi - per nulla scontati per come potrebbe apparire a prima vista - sono stati riproposti da Marcello Veneziani con un articolo apparso sul Giornale proprio in questi giorni di festa e di crisi, dal titolo: «Ci serve autorità per essere liberi».
Lo spunto è la recensione di un saggio del 1942 – «La nozione di autorità», di Alexandre Kojève, ora riproposto dalla Adelphi - sulla quale Veneziani innesta una riflessione sull'odierna decadenza del principio d'autorità, il cui inesausto declino dal '68 in poi corrisponde in pari misura a quello subito dalla figura paterna nei processi educativi e formativi intrafamiliari (qui la forte correlazione del tema in argomento con la questione maschile più generale).

Il nucleo centrale intorno a cui si snoda il ragionamento di Veneziani è che «l’autorità è un bisogno vitale di ogni società» in quanto l'autorità svolge una insostituibile funzione di guida della comunità, necessaria a preservarla dallo smarrimento dell'anomia e dal caos conseguente.
Sin qui appare pacificamente condivisibile l'assioma secondo cui ogni organizzazione sociale necessita di una classe dirigente, di leadership autorevoli, di gerarchie strutturate allo scopo e perciò capaci di elaborare ed amministrare il corpus normativo di riferimento, sia esso domestico, politico, tecnico, scientifico o morale/religioso.
Che si tratti della famiglia, di un'impresa economica, di un'istituzione accademica, di un partito, di una comunità territoriale o dello Stato, l'esigenza di dotarsi di norme di condotta utili al perseguimento degli scopi comuni implica la necessità inderogabile di un centro regolativo, ossia di una testa che dia coordinamento ed indirizzo all'intero corpo sociale, e di un adeguato sistema sanzionatorio inteso a far rispettare le norme.
E' altrettanto condivisibile, senza riserve, l'idea che le gerarchie di merito, di capacità e di valore tra gli individui esistono - eccome se esistono - e che ne andrebbero recuperati il senso, la misura ed il peso sociale a beneficio di tutti.
Ma, a quale autorità pensa Veneziani - dopo la lettura del saggio di Kojève - e quale la disciplina che essa dovrebbe amministrare?
Lo precisa lui stesso, quando scrive che: «l’autorità è pure ciò che distingue un leader da un esecutore (oggi diremmo un tecnico). Perché il tecnico è esperto di mezzi, autorità è invece chi sa commisurare i mezzi ai fini. Tecnologico uno, teleologica l’altra.
Dunque si parla dell'autorità pubblica, del ceto politico e non dell'autorità del magister; può essere ricompresa anche l'autorità genitoriale o quella sacerdotale, entrambi chiamati a commisurare i mezzi ai fini, ma la dimensione "pubblica" della leadership politica appare quella propriamente chiamata in causa.
Anche per ciò che concerne la disciplina da amministrare l'articolo non lascia spazio a dubbi: «quando diciamo che mancano le guide o gli educatori, i modelli e i punti di riferimento, le classi dirigenti o le vere élite, parafrasiamo il bisogno di autorità».
Qui, venendo al nodo della questione, smetto di essere in sintonia con le tesi di Veneziani nella maniera più netta.
Questo investimento di funzioni educative, esemplari e pedagogiche nell'autorità pubblica, infatti, riduce la dimensione del cittadino comune a quella di un minus habens, qualcuno da condurre per mano verso direzioni prefissate, secondo una delega di potere decisionale che riduce e comprime la volontà autonoma dell'individuo ai minimi termini.
Dalla culla alla tomba, secondo una nota formula, l'autorità assume così le forme di un ente tutoriale e il cittadino quelle di un assistito cronico o di un deviante da rieducare.
Si ripropone, insomma, in questa definizione dell'autorità quella soverchiante logica della sovraordinazione della società all'individuo, del potere alla persona, del pubblico al privato, per cui gli elementi costitutivi della "libertà" quali l'autonomia e la responsabilità soggettiva si riducono alla loro misera e illusoria parvenza, se non alla loro sistematica negazione.
In realtà, le funzioni educative, esemplari e pedagogiche appartengono al genitore - nei momenti di competenza all'insegnante - e niente affatto al leader o ai suoi emissari pubblici, in quanto il destinatario di queste funzioni è il minore, il bambino o il ragazzo che in casa o a scuola necessita di autorità, in quanto necessita di disciplinare le proprie energie.
A differenza di questo, alla persona adulta, che deve riconoscersi capace di autonoma e consapevole responsabilità, la disciplina della convivenza non è imposta unilateralmente da un leader di partito ma dalla legge, com'è giusto che sia; un'autorità impersonale e aperta alle trasformazioni democratiche alla quale anche «l'autorità» di cui parla Veneziani deve sottostare.
Si chiama stato di diritto in un contesto di democrazia liberale.

Sicché, per dare risposta agli interrogativi iniziali direi che si tratta di distinguere correttamente tra l'autorità paternalistica ed assistenziale che si rivolge al fanciullo per assecondarne il corretto sviluppo psico-fisico e quella che, al contrario, si rivolge all'adulto formato e maturo, coinvolgendolo responsabilmente nei processi pubblici decisionali.
Penso, quindi, che i tempi in cui ci si alzava dal banco in segno di disciplina e rispetto nei confronti del professore fossero migliori degli attuali, senza ombra di dubbio, in quanto ponevano docente e discente nel corretto rapporto gerarchico, didattico ed educativo.
Penso, invece, che i tempi in cui ci si rivolgeva a qualche viceré dei poteri pubblici con il cappello in mano, invocando favori e non diritti, come sudditi e non come cittadini, fossero infinitamente peggiori.
Penso anche che l'autorità di cui Veneziani lamenta il declino sia da intendersi, più propriamente, come l'autorità educativa paterna nel nucleo familiare, la cui assenza sempre più frequente nei contesti familiari frantumati oggi riconosciamo nelle deboli e oscillanti psicologie giovanili, terreno fertile per qualunque autorità sostitutiva a condizione che non imponga regole e disciplina.
Ma qui il discorso si amplierebbe in maniera eccessiva rispetto alle premesse.
Non credo, comunque, che serva più autorità nel potere per essere liberi nella sfera pubblica.
Ma credo che sia, piuttosto, l'autorità paterna negli anni dell'educazione e della formazione quella di cui la società ha un bisogno vitale; e che serva come fondamento essenziale per essere più liberi nella sfera personale e, quindi, ovunque.