«Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.»
(Hanna Arendt - Le origini del totalitarismo)
Siamo tutti abituati, ormai da tempo immemore, agli accorati sermoni sui bassi livelli occupazionali femminili, di volta in volta descritti e stigmatizzati a gran voce come sintomo della perdurante esclusione delle donne dalla vita sociale, ovvero come indice di un deficit di modernità e di efficienza del sistema economico nel suo complesso.
E siamo talmente assuefatti a questo genere di liturgie argomentative ripetute ossessivamente - come un ronzio di sottofondo della vita quotidiana - che non ci facciamo quasi più caso, né quando intorno a queste cifre si costruiscono le interpretazioni più grottesche e risibili (la spectre segreta del maschilismo) né quando (e qui sta il vero problema) le interpretazioni del dato statistico hanno la pretesa di poggiare le proprie fondamenta sulla logica delle dinamiche economiche reali e sulle teorie dei fattori di sviluppo.
Teorie economicistiche che sarebbe più appropriato definire come strategie di politica economica; ma per comprendere la complessità della materia si tratta di procedere per gradi.
Partiamo, quindi, dal semplice fatto che la Banca d'Italia - su input della Banca Mondiale e con l'abituale affiancamento, in occasioni simili, dell'onnipresente maracarfagna - ha promosso un convegno su «Crescita economica, equità, uguaglianza: il ruolo delle donne».
Nell'ambito del convegno sono stati snocciolati, come di consueto, i dati allarmistici sulla disoccupazione femminile in Italia (hanno un lavoro "ufficiale" il 46,1% delle donne in età lavorativa a fronte del 67,7% degli uomini) con tanto di abitudinario conteggio statistico delle posizioni apicali.
Sin qui, è l'ordinaria riedizione di numeri già noti nelle grandezze generali, benché sempre oscillanti da ricerca a ricerca.
Non si può non saltare dalla scrivania, però, quando a corollario di queste cifre ci si avventura nella profezia quantomeno azzardata, per limitarsi nei termini, secondo la quale il mancato raggiungimento del mitologico "obiettivo di Lisbona" (60% di occupazione femminile) comporterebbe la perdita - o, comunque, il mancato apporto correlato - di 7 punti percentuali di PIL.
Insomma, la riedizione aggiornata in giacca e cravatta regimental di quella insulsa e sconclusionata teoria basata sul nulla secondo cui l'occupazione femminile sarebbe un sicuro volano di sviluppo economico.
Badate, lo dice la Banca d'Italia, mica la sorellanza sgangherata dei centri sociali o il femminismo tardo borghese sciccosamente "radical" delle Rodotà, delle Muraro o delle Gruber.
Chi fa queste profezie ammantate di attendibilità scientifica - o, almeno, di necessario rigore nella metodologia di ricerca - è una delle istituzioni d'eccellenza nell'intero scenario italiano.
Annotazioni preventive al proseguio del discorso: a) gli atti del convegno non sono visibili sul sito e, quindi, relata refero dal sunto (chissà quanto attendibile) del Corsera; b) non ho certo la pretesa di mettermi a competere con la Banca d'Italia sul piano tecnico, ma ciò non mi impedisce, pur con la minore portata della cultura economica a mia disposizione, di continuare a pensare con la mia testa.
Altrimenti siamo destinati a dipendere tutti dalle befane volanti del Corsera e dai tecno-burocrati in versione regimental.
Bene, fatte le debite e necessarie premesse, considerato per buona aggiunta che a volte pure le pulci c'hanno la tosse, io affermo che quello che dice la Banca d'Italia - su input della Banca Mondiale, su input della UE, sotto la sorveglianza delle carfagne di turno - è un'emerita sciocchezza.
Quantomeno se ciò di cui si parla, come appare evidente, è la pura e semplice occupazione.
Vediamo in che senso.
Non c'è chi non riesce a capire - spero - che il titolare di una catena di supermercati che assumesse duecento cassiere in più del necessario (per fare patriotticamente il PIL di cui si parla), non solo non alzerebbe il fatturato delle proprie aziende di un centesimo ma, al contrario, si esporrebbe a costi privi di benefici e, quindi, al rischio fallimento, con un bel danno incorporato per il povero PIL e per tutti i dipendenti: maschi, femmine ed ermafroditi compresi.
Non c'è chi non riesce a capire, allo stesso modo, che il proprietario di un'azienda manifatturiera che assumesse duecento donne, licenziando contestualmente duecento uomini per non aggravare il bilancio aziendale, non solo non si troverebbe a migliorare il proprio fatturato in alcun modo - ovviamente - ma si troverebbe, con ogni probabilità già documentata, a fronteggiare percentuali di astensionismo più alte e, quindi, una produzione più bassa e inefficiente (e comunque niente PIL in ogni caso).
Non c'è chi non riesce a capire, ancora, che se dovessero essere assunte in organico e immesse in ruolo diecimila precarie della scuola, gravando sulla spesa pubblica, non si incrementa il PIL con il becco di un quattrino; al contrario, si alimenterebbe il debito pubblico andando verso nuove tasse e, quindi, verso una contrazione dei consumi generali ed una stagnazione (altro che incremento) del PIL.
Comunque la si voglia mettere rimane sempre una partita di giro che nulla aggiunge - semmai qualcosa toglie - alla produzione economica.
La realtà - una realtà che la Banca d'Italia (e figuriamoci quella mondiale) dovrebbe conoscere molto meglio di chi scrive - è che gli incrementi occupazionali non sono la causa dell'aumento del PIL; semmai ne sono il possibile e consequenziale effetto che, innescando il ciclo dei maggiori consumi, ne rafforza il trend.
Perché non è il "lavoro" - procedurale, generico e comunque dipendente - a fare lo sviluppo; meno che mai a farlo è l'occupazione sessuata che, di per sé, è una panzana aggiuntiva alla precedente, oltre che un'aggravante teorica.
La crescita economica e la conseguente maggiore occupazione generale, è fatta dall'impresa, dal capitale di rischio, dall'intraprendenza economica, dall'interesse privato o dalla smania di profitto personale, comunque sia che vogliate chiamare questa brutta cosa che è l'economia di libero mercato.
Lo sviluppo, bello o brutto che possa sembrare, è fatto ad esempio da quelli come Steve Jobs - di cui si piange la scomparsa non a caso - il quale, uti singuli, ha trasformato le sue idee in un affare economico, portando occupazione e opportunità di utile impiego a decine di migliaia di persone.
Le quali hanno, sì, aumentato la loro capacità d'acquisto e, quindi, i consumi e, quindi, indirettamente la produzione; ma se non ci fosse stato San Jobs all'origine del loro stipendio spendibile il ciclo virtuoso della ricchezza sarebbe rimasto semplicemente lettera morta per tutti loro, con tanti cari saluti al PIL generale.
In più, diciamolo una volta per tutte davanti all'evidenza dei fatti: l'intraprendenza, la creatività, l'attitudine spontanea a modificare l'ambiente a proprio vantaggio, la capacità costruttiva, immaginativa e ideativa sono caratteristiche umane propriamente maschili, non certo femminili. La storia e l'evidenza empirica della realtà ci dice questo, sino a quella prova contraria che ad oggi non è ancora arrivata e dubito possa mai arrivare.
Dov'è, allora, l'inghippo concettuale intorno al quale un'istituzione pur tanto autorevole come la Banca d'Italia si avvita, mandando allegramente a ramengo i fondamentali stessi dell'economia di mercato?
Sulla base di quel poco che sappiamo di questo sciagurato convegno, l'ipotesi più realistica sta tutta nel tema affrontato, dove si è voluto artificiosamente coniugare il concetto di crescita economica con i concetti di equità e di uguaglianza.
Che è un po' come portare la Beata Vergine Maria in processione bestemmiando per tutto il santo percorso.
Ora, non bisogna essere ferventi cultori della scuola austriaca di economia o adoratori maniacali di Von Hayek per sapere che libertà (economica) - ossia sviluppo - da un lato ed equità e uguaglianza dall'altro sono abbastanza in contrasto tra loro, tanto che quando si privilegia la prima si sacrificano le seconde e viceversa (con la chiarissima avvertenza che la produzione di ricchezza, comunque, torna sempre a vantaggio di tutti).
C'è sempre la possibilità di trovare un punto d'equilibrio - mi si potrebbe obiettare -, il famoso contemperamento di valori in competizione.
Ma sicuramente, come no; sennonché un ragionamento di questo tipo non giustifica in nessun modo e in nessun momento che la Banca d'Italia vada raccontando ufficialmente - come pretesa di verità tecnico-scientifica su cui orientare le politiche economiche o le strategie aziendali - che l'occupazione femminile produce più PIL del normale e che, invece, la mancata occupazione delle donne, magari a discapito di altrettanti uomini, impoverisce la ricchezza nazionale di 7 punti percentuali.
Perché sarebbe come se l'autorevole e qualificatissima banca centrale nazionale - a cui tutti i cittadini guardano con rispettosa e deferente attenzione - si mettesse a ragionare sulle pensioni arrivando a sostenere, in base ai propri calcoli, che aumentare i costi previdenziali e assicurativi a carico delle aziende darebbe adito alla creazione di nuovi posti di lavoro; ossia, una scemenza da rotolarsi dalle risate che nessuno prenderebbe minimamente sul serio.
Soprattutto, verrebbe considerata una pesante intromissione nelle politiche economiche di competenza degli organi elettivi, che difficilmente si farebbero dettare da un organo tecnico e politicamente neutro (forse) le linee di condotta in materia.
Nella circostanza, invece, non ride nessuno; anzi, si plaude da più parti all'iniziativa di "cultura economica" dell'istituto di Via Nazionale, forse in quanto compulsata allo scopo dai cerchi superiori, dalla UE, dalle marecarfagne in circolazione, dalle fratellanze mondiali e dalle sorellanze rionali.
Resta un'ultima annotazione a margine di tutto il discorso.
Da quanto detto sinora si deve dedurre che non vada riconosciuto ad ogni singola donna il sacrosanto diritto di trovarsi liberamente un lavoro e di conseguire, attraverso quello, anche l'agognata indipendenza economica?
Ma neanche per sogno.
A condizione, però, che per conseguire questo risultato, magari a quell'astratto e indeterminato livello che è il livello sociale, nessuno si senta legittimato a falsificare le carte in tavola, a raccontare fischi per fiaschi e a cercare di imporre - sulla base di "false verità" date in pasto all'opinione pubblica - criteri di condotta generali calati dall'alto, grazie alla discutibilissima certificazione di validità della scienza economica.
Ma ciò che abbiamo osservato, per tutta la durata di questa interminabile requisitoria, pare che vada esattamente in questa direzione.
(Hanna Arendt - Le origini del totalitarismo)
Disoccupazione femminile storica |
E siamo talmente assuefatti a questo genere di liturgie argomentative ripetute ossessivamente - come un ronzio di sottofondo della vita quotidiana - che non ci facciamo quasi più caso, né quando intorno a queste cifre si costruiscono le interpretazioni più grottesche e risibili (la spectre segreta del maschilismo) né quando (e qui sta il vero problema) le interpretazioni del dato statistico hanno la pretesa di poggiare le proprie fondamenta sulla logica delle dinamiche economiche reali e sulle teorie dei fattori di sviluppo.
Teorie economicistiche che sarebbe più appropriato definire come strategie di politica economica; ma per comprendere la complessità della materia si tratta di procedere per gradi.
Partiamo, quindi, dal semplice fatto che la Banca d'Italia - su input della Banca Mondiale e con l'abituale affiancamento, in occasioni simili, dell'onnipresente maracarfagna - ha promosso un convegno su «Crescita economica, equità, uguaglianza: il ruolo delle donne».
Nell'ambito del convegno sono stati snocciolati, come di consueto, i dati allarmistici sulla disoccupazione femminile in Italia (hanno un lavoro "ufficiale" il 46,1% delle donne in età lavorativa a fronte del 67,7% degli uomini) con tanto di abitudinario conteggio statistico delle posizioni apicali.
Sin qui, è l'ordinaria riedizione di numeri già noti nelle grandezze generali, benché sempre oscillanti da ricerca a ricerca.
Non si può non saltare dalla scrivania, però, quando a corollario di queste cifre ci si avventura nella profezia quantomeno azzardata, per limitarsi nei termini, secondo la quale il mancato raggiungimento del mitologico "obiettivo di Lisbona" (60% di occupazione femminile) comporterebbe la perdita - o, comunque, il mancato apporto correlato - di 7 punti percentuali di PIL.
Insomma, la riedizione aggiornata in giacca e cravatta regimental di quella insulsa e sconclusionata teoria basata sul nulla secondo cui l'occupazione femminile sarebbe un sicuro volano di sviluppo economico.
Badate, lo dice la Banca d'Italia, mica la sorellanza sgangherata dei centri sociali o il femminismo tardo borghese sciccosamente "radical" delle Rodotà, delle Muraro o delle Gruber.
Chi fa queste profezie ammantate di attendibilità scientifica - o, almeno, di necessario rigore nella metodologia di ricerca - è una delle istituzioni d'eccellenza nell'intero scenario italiano.
Annotazioni preventive al proseguio del discorso: a) gli atti del convegno non sono visibili sul sito e, quindi, relata refero dal sunto (chissà quanto attendibile) del Corsera; b) non ho certo la pretesa di mettermi a competere con la Banca d'Italia sul piano tecnico, ma ciò non mi impedisce, pur con la minore portata della cultura economica a mia disposizione, di continuare a pensare con la mia testa.
Altrimenti siamo destinati a dipendere tutti dalle befane volanti del Corsera e dai tecno-burocrati in versione regimental.
Bene, fatte le debite e necessarie premesse, considerato per buona aggiunta che a volte pure le pulci c'hanno la tosse, io affermo che quello che dice la Banca d'Italia - su input della Banca Mondiale, su input della UE, sotto la sorveglianza delle carfagne di turno - è un'emerita sciocchezza.
Quantomeno se ciò di cui si parla, come appare evidente, è la pura e semplice occupazione.
Vediamo in che senso.
Non c'è chi non riesce a capire - spero - che il titolare di una catena di supermercati che assumesse duecento cassiere in più del necessario (per fare patriotticamente il PIL di cui si parla), non solo non alzerebbe il fatturato delle proprie aziende di un centesimo ma, al contrario, si esporrebbe a costi privi di benefici e, quindi, al rischio fallimento, con un bel danno incorporato per il povero PIL e per tutti i dipendenti: maschi, femmine ed ermafroditi compresi.
Non c'è chi non riesce a capire, allo stesso modo, che il proprietario di un'azienda manifatturiera che assumesse duecento donne, licenziando contestualmente duecento uomini per non aggravare il bilancio aziendale, non solo non si troverebbe a migliorare il proprio fatturato in alcun modo - ovviamente - ma si troverebbe, con ogni probabilità già documentata, a fronteggiare percentuali di astensionismo più alte e, quindi, una produzione più bassa e inefficiente (e comunque niente PIL in ogni caso).
Non c'è chi non riesce a capire, ancora, che se dovessero essere assunte in organico e immesse in ruolo diecimila precarie della scuola, gravando sulla spesa pubblica, non si incrementa il PIL con il becco di un quattrino; al contrario, si alimenterebbe il debito pubblico andando verso nuove tasse e, quindi, verso una contrazione dei consumi generali ed una stagnazione (altro che incremento) del PIL.
Comunque la si voglia mettere rimane sempre una partita di giro che nulla aggiunge - semmai qualcosa toglie - alla produzione economica.
La realtà - una realtà che la Banca d'Italia (e figuriamoci quella mondiale) dovrebbe conoscere molto meglio di chi scrive - è che gli incrementi occupazionali non sono la causa dell'aumento del PIL; semmai ne sono il possibile e consequenziale effetto che, innescando il ciclo dei maggiori consumi, ne rafforza il trend.
Perché non è il "lavoro" - procedurale, generico e comunque dipendente - a fare lo sviluppo; meno che mai a farlo è l'occupazione sessuata che, di per sé, è una panzana aggiuntiva alla precedente, oltre che un'aggravante teorica.
La crescita economica e la conseguente maggiore occupazione generale, è fatta dall'impresa, dal capitale di rischio, dall'intraprendenza economica, dall'interesse privato o dalla smania di profitto personale, comunque sia che vogliate chiamare questa brutta cosa che è l'economia di libero mercato.
Lo sviluppo, bello o brutto che possa sembrare, è fatto ad esempio da quelli come Steve Jobs - di cui si piange la scomparsa non a caso - il quale, uti singuli, ha trasformato le sue idee in un affare economico, portando occupazione e opportunità di utile impiego a decine di migliaia di persone.
Le quali hanno, sì, aumentato la loro capacità d'acquisto e, quindi, i consumi e, quindi, indirettamente la produzione; ma se non ci fosse stato San Jobs all'origine del loro stipendio spendibile il ciclo virtuoso della ricchezza sarebbe rimasto semplicemente lettera morta per tutti loro, con tanti cari saluti al PIL generale.
In più, diciamolo una volta per tutte davanti all'evidenza dei fatti: l'intraprendenza, la creatività, l'attitudine spontanea a modificare l'ambiente a proprio vantaggio, la capacità costruttiva, immaginativa e ideativa sono caratteristiche umane propriamente maschili, non certo femminili. La storia e l'evidenza empirica della realtà ci dice questo, sino a quella prova contraria che ad oggi non è ancora arrivata e dubito possa mai arrivare.
Dov'è, allora, l'inghippo concettuale intorno al quale un'istituzione pur tanto autorevole come la Banca d'Italia si avvita, mandando allegramente a ramengo i fondamentali stessi dell'economia di mercato?
Sulla base di quel poco che sappiamo di questo sciagurato convegno, l'ipotesi più realistica sta tutta nel tema affrontato, dove si è voluto artificiosamente coniugare il concetto di crescita economica con i concetti di equità e di uguaglianza.
Che è un po' come portare la Beata Vergine Maria in processione bestemmiando per tutto il santo percorso.
Ora, non bisogna essere ferventi cultori della scuola austriaca di economia o adoratori maniacali di Von Hayek per sapere che libertà (economica) - ossia sviluppo - da un lato ed equità e uguaglianza dall'altro sono abbastanza in contrasto tra loro, tanto che quando si privilegia la prima si sacrificano le seconde e viceversa (con la chiarissima avvertenza che la produzione di ricchezza, comunque, torna sempre a vantaggio di tutti).
C'è sempre la possibilità di trovare un punto d'equilibrio - mi si potrebbe obiettare -, il famoso contemperamento di valori in competizione.
Ma sicuramente, come no; sennonché un ragionamento di questo tipo non giustifica in nessun modo e in nessun momento che la Banca d'Italia vada raccontando ufficialmente - come pretesa di verità tecnico-scientifica su cui orientare le politiche economiche o le strategie aziendali - che l'occupazione femminile produce più PIL del normale e che, invece, la mancata occupazione delle donne, magari a discapito di altrettanti uomini, impoverisce la ricchezza nazionale di 7 punti percentuali.
Perché sarebbe come se l'autorevole e qualificatissima banca centrale nazionale - a cui tutti i cittadini guardano con rispettosa e deferente attenzione - si mettesse a ragionare sulle pensioni arrivando a sostenere, in base ai propri calcoli, che aumentare i costi previdenziali e assicurativi a carico delle aziende darebbe adito alla creazione di nuovi posti di lavoro; ossia, una scemenza da rotolarsi dalle risate che nessuno prenderebbe minimamente sul serio.
Soprattutto, verrebbe considerata una pesante intromissione nelle politiche economiche di competenza degli organi elettivi, che difficilmente si farebbero dettare da un organo tecnico e politicamente neutro (forse) le linee di condotta in materia.
Nella circostanza, invece, non ride nessuno; anzi, si plaude da più parti all'iniziativa di "cultura economica" dell'istituto di Via Nazionale, forse in quanto compulsata allo scopo dai cerchi superiori, dalla UE, dalle marecarfagne in circolazione, dalle fratellanze mondiali e dalle sorellanze rionali.
Resta un'ultima annotazione a margine di tutto il discorso.
Da quanto detto sinora si deve dedurre che non vada riconosciuto ad ogni singola donna il sacrosanto diritto di trovarsi liberamente un lavoro e di conseguire, attraverso quello, anche l'agognata indipendenza economica?
Ma neanche per sogno.
A condizione, però, che per conseguire questo risultato, magari a quell'astratto e indeterminato livello che è il livello sociale, nessuno si senta legittimato a falsificare le carte in tavola, a raccontare fischi per fiaschi e a cercare di imporre - sulla base di "false verità" date in pasto all'opinione pubblica - criteri di condotta generali calati dall'alto, grazie alla discutibilissima certificazione di validità della scienza economica.
Ma ciò che abbiamo osservato, per tutta la durata di questa interminabile requisitoria, pare che vada esattamente in questa direzione.