Basta con le "discriminazioni positive"





Il 26 luglio scorso la Camera dei Deputati ha rigettato, a maggioranza, un disegno di legge di iniziativa del Partito Democratico con il quale si è cercato di introdurre nell’ordinamento speciali misure di tutela per le persone omosessuali e transessuali.
Anna Paola Concia
Il provvedimento all'esame prevedeva di integrare l’articolo 61 del codice penale con l’aggiunta di una nuova ed ulteriore circostanza aggravante, oltre a quelle già previste dalla norma in vigore, che in sede giudiziaria avrebbe comportato un aggravio delle pene per i reati commessi a causa di «motivi di omofobia e transfobia, intesi come odio e discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale di una persona».
L’iniziativa, fortemente sostenuta dalla lobby omosessuale - com'è evidente e risaputo - è stata respinta per ragioni di incompatibilità con la Carta Costituzionale e per ragioni di civiltà giuridica, in quanto, in ultima analisi, è stata giustamente ritenuta in contraddizione con il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e con il principio generale di tassatività delle norme penali (nullum crimen, nulla poena sine lege).
In pratica, secondo il principio di eguaglianza – che tutti conosciamo nel suo senso generale: la legge è uguale per tutti – non si può (rectius: non si potrebbe) trattare in maniera diversificata i cittadini sul piano giuridico, in ragione di motivi legati al sesso, alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali.
Ossia, per nessun motivo, compresi quelli fantomatici relativi al c.d. «orientamento sessuale».
Il principio di tassatività, invece, prevede che le norme definiscano con sufficiente chiarezza la fattispecie di reato, per impedire che una descrizione approssimativa e generica della condotta sanzionabile conferisca agli organi giudicanti uno spazio discrezionale troppo ampio e, quindi, cada nell'arbitrio soggettivo del singolo magistrato.
A quest'ultimo riguardo, appare di chiara evidenza come fondare un’aggravante di pena su un elemento psicologico deducibile solo con uno sforzo interpretativo astratto equivale, in tutto e per tutto, a legittimare “processi alle intenzioni” simili, per analogia logica e procedurale, alle "sante inquisizioni" di medievale memoria.
Nella migliore delle ipotesi dovrebbe essere il reo confesso - poniamo che si tratti di un caso di aggressione con lesioni personali, di minacce o di ingiurie - a chiarire in sede processuale di avere agito con il movente dell'odio nei confronti degli omosessuali. Il semplice buon senso ci dice che nessun essere senziente si darebbe la zappa sui piedi da solo e, pertanto, la presunta omofobia in base alla quale sarebbe stato commesso il reato verrebbe ad essere desunta mediante un procedimento di ricostruzione della personalità dell'imputato, che costituirebbe non più un processo al fatto di reato ma un processo alla psicologia dell'imputato, al suo modo di essere e di vedere le cose. Una riduzione della libertà personale dell'individuo all'interno di un pensiero unico, dogmatico e senza deviazioni; inquisitorio, appunto.
Sin qui la cronaca delle vicende parlamentari sulle quali la stampa ha fornito informazioni più che esaustive e dettagliate.
Non ci dilungheremo più del necessario, quindi, sulle questioni dottrinali, né sulle reazioni ovviamente differenziate, nei modi e nei toni, che hanno fatto pubblicamente seguito al rigetto della proposta normativa.
Gay Pride
Ciò che, invece, ci interessa mettere in evidenza è che si è trattato di uno dei pochi tentativi andato a vuoto - molti dei quali, però, riusciti - di introdurre nel diritto codificato una nuova, stramaledetta «discriminazione positiva».
Si tratta della malsana idea secondo la quale alcune categorie sociali ritenute deboli e discriminate - se non addirittura oppresse, nell'anno di grazia 2011, nella civile e progredita Italia - dovrebbero essere portate in condizioni di parità con le altre mediante discriminazioni alla rovescia, sia che esse significhino specialissime tutele come nel caso di specie, sia che si tratti di legislazioni di favore, differenziate da quelle a cui sono assoggettati tutti gli altri e studiate ad hoc per la categoria specifica interessata.
Questa logica di partizione schematica della società, fondata sulla suddivisione pregiudiziale tra buoni e cattivi, tra forti e deboli, tra avvantaggiati e svantaggiati, avrebbe origine, secondo alcuni, nell'America delle battaglie civili in favore delle categorie sociali discriminate - neri, immigrati, donne, omosessuali, eccetera - con la denominazione ufficiale di "affirmative actions"; ossia, azioni o discriminazioni positive tese a parificare tutti con tutti, avvantaggiando legislativamente le "categorie protette" a svantaggio delle altre.
In realtà, nel nostro ordinamento la distinzione tra eguaglianza formale (di fronte alla legge) ed eguaglianza sostanziale (il livellamento sociale pianificato) affonda le proprie radici nel 2° capoverso dell'art. 3 della Cost. e nelle interpretazioni estensive che ne hanno dato, nel tempo, tanto la Suprema Corte di Cassazione quanto la stessa Corte Costituzionale, con sentenze che, sin dagli anni sessanta, hanno fatto giurisprudenza in materia.
Il comma in questione afferma che «è compito della Repubblica (ossia, della classe politica e dei poteri pubblici, n.d.r.) rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...eccetera».
In base a questa affermazione di principio, da molti ritenuta il fondamento costituzionale dello stato sociale ed assistenziale, discriminazioni positive sui generis sono state già largamente adottate nel nostro Paese dal dopoguerra in avanti.
Speciali provvidenze in favore degli agricoltori meridionali, fiscalità di vantaggio per i terremotati, edilizia agevolata per i meno abbienti, pensioni di riversibilità e molto altro ancora.
Il caso, tuttavia, più eclatante e sintomatico riguarda gli invalidi civili, ai quali da decenni sono assicurate quote riservate nei concorsi pubblici, pensionamenti vitalizi ed altre forme di beneficio legale; misure tese ad alleviare le loro oggettive difficoltà.
Quando quelle difficoltà ci sono, perché sappiamo tutti molto bene quali assurdi abusi siano stati e vengano ancora compiuti in nome di quell'alta e nobile idealità solidaristica: falsi ciechi, falsi storpi, falsi invalidi.
Ma non vogliamo mettere in discussione questo genere di assistenze.
Ciò che preme sottolineare è che donne ed omosessuali - le categorie più insistenti nel dichiararsi discriminate e vittimizzate - aspirano a protezioni sociali analoghe a quelle degli invalidi, dei terremotati, dei contadini meridionali degli anni cinquanta.
La cosa sorprendente è che questa volta la discriminazione di vantaggio gli sia stata negata dalla stessa classe politica che ha legalizzato quote rosa, finanziamenti agevolati all'imprenditoria femminile e molte altre cose dello stesso genere.
Ma non bisogna sorprendersi più di tanto, è solo questione di tempo.
Basterà che le sinistre tornino ad essere maggioranza parlamentare, ad assumere il governo del Paese ed anche gli omosessuali diventeranno una «categoria protetta», come le donne e gli invalidi civili.
Nessun dubbio.




N.B. - Com'è intuitivamente evidente, nel periodo estivo la pubblicazione di nuovi articoli subirà un fisiologico rallentamento, per riprendere a pieno ritmo tra qualche settimana.
Buone vacanze a tutti i lettori.