La polemica politica che infuria da anni sull'atteggiamento da tenersi nei confronti dell'immigrazione irregolare e clandestina ha raggiunto, in questi ultimi tempi, un nuovo acme.
Come tutti sappiamo, l'inasprimento dei contrasti ideologici sul tema origina dalla ripresa degli sbarchi causati dai sommovimenti politico-sociali che agitano quasi l'intera area nordafricana e del medioriente.
A seguito della massiccia recrudescenza del fenomeno migratorio seguita a questi avvenimenti, la linea di divaricazione che separa - ricalcando la tradizionale divisione destra/sinistra sul piano politico - la pubblica opinione e la classe dirigente nazionale nelle due fazioni contrapposte è tracciata dall'usuale e mai risolto interrogativo etico di fondo del problema.
Ossia, se sia più giusto privilegiare i valori umanitari dell'accoglienza e, quindi, consentire l'ingresso dei migranti, con conseguente sacrificio delle popolazioni locali in termini di sicurezza, vivibilità del territorio, conservazione degli standard sociali e dei livelli minimi legali di concorrenzialità economica; o se, al contrario, sia più giusto salvaguardare l'interesse della cittadinanza ad un'esistenza non gravata eccessivamente dal carico di problematiche altrui - oltre alle proprie -, nonché il principio che nessuno venga politicamente autorizzato o giustificato, fosse anche per ragioni umanitarie, a violare impunemente i nostri confini territoriali, giuridici, culturali ed economici.
Tralasceremo, in questa sede, dal considerare la complessità delle questioni tecniche per cui andrebbe già operata, ab origine, una distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo da un lato, dai clandestini tout court dall'altro. Così come non prenderemo in esame le questioni, altrettanto contorte, che vedono il nostro Paese - confine geografico dell'area Schengen rispetto all'Africa, insieme a Malta - chiamato a "sbrigarsela da solo" con una problematica che dovrebbe, invece, riguardare, come dovrebbe apparire evidente anche agli indefessi cultori dell'europeismo, l'Unione nel suo complesso.
Ci soffermeremo, invece, sul dualismo contrapposto delle due posizioni politiche evidenziate che - come è stato efficacemente sostenuto in un recente articolo di D. Cofrancesco - segnala per un verso l'inconciliabile conflitto tra l'universalismo degli imperativi morali e il razionale, inestinguibile particolarismo dell'azione "politica" (laddove la politica, a differenza di quello, assume le ragioni della polis, ossia della comunità circoscritta).
Ma che, a nostro avviso, segnala per altri aspetti anche il carattere intimamente "sessuato" delle due posizioni; affermazione che va, naturalmente, spiegata.Anche ad un livello semplicemente intuitivo, sembra abbastanza evidente che le politiche morali e compassionevoli dell'accoglienza radicalizzano un complesso di atteggiamenti e caratteri comportamentali - quali l'apertura relazionale, l'empatia accogliente, la dimensione pietistica e l'attitudine alla cura ed al sostegno - che si associano normalmente ai caratteri femminili.
Per contro, le politiche "conservative" fondate sul governo selettivo e razionale del fenomeno migratorio, centrate su una spontanea tendenza alla chiusura emotiva, alla difesa del territorio dalle intrusioni, unite all'approccio razionale al problema in una più generale visione teorica d'insieme e alla particolare attenzione alle tematiche della sicurezza connotano, pur nell'inevitabile genericità dello stereotipo - che, peraltro, risponde essenzialmente al dato di realtà -, atteggiamenti di fondo che siamo soliti definire come tipicamente maschili.
Un'analisi di questo tipo, che potrebbe sembrare, a prima vista, un'interpretazione a basso costo, non è affatto nuova nel panorama politologico complessivo se è vero, come è vero, che già nelle analisi dell'alleanza atlantica e dell'egemonia americana al suo interno, c'è chi ha definito a suo tempo l'Europa dell'equità sociale e della non belligeranza di principio «femminea e postmoderna», in quanto largamente dipendente «dalla protezione virile e marziale ad essa offerta dagli Stati Uniti», anche all'indomani dell'11 settembre.
Fatto salvo l'approccio in chiave di caratterizzazione sessuale, si tratta di riportare il tema su un piano di ragionevole equilibrio e di verificare se questo stesso equilibrio possa essere trovato alle condizioni date.
Le due istanze in questione - che, per brevità, definiremo politica (femminilizzante) dell'accoglienza e politica (maschile) della conservazione - si rendono incompatibili l'una con l'altra soltanto se condotte sino alle conseguenze estreme, senza approdare ad un necessario equilibrio reciproco.
Esattamente come si rivelano incompatibili la pretesa della superiorità morale della "sinistra femminea" con il razionale pragmatismo della "destra maschile" quando e dove affermata, appunto, come pretesa di superiorità antropologica di una parte sull'altra.
Va, infatti, rilevato che la posizione dell'accoglienza ha ormai da tempo preso il sopravvento, sul piano culturale, forte del suo universalismo non negoziabile per il quale - come ha scritto Cofrancesco - «una “etica politica” che riguardi solo un piccolo spazio del pianeta e non l’intero globo terracqueo è avvertita come regressiva e antiumana».
Mentre, all'opposto, sul piano politico effettivo, la posizione della conservazione va accrescendo di giorno in giorno un suo consenso, sì, ma "nascosto", defilato, invisibile, esercitato quasi clandestinamente nel segreto dell'urna e non esportabile nel territorio della libertà d'espressione, pena il vituperio e l'esecrazione della cultura ufficiale umanitaria a tutti i costi.
Ci troviamo, in definitiva, di fronte ad una femminilizzazione della politica che investe - con le sue pretese di moralizzazione della realtà sociale - le stesse misure particolari di governo, quali il fenomeno migratorio, fondato sull'assunto che l'accoglienza sia eticamente superiore al respingimento, che l'altruismo sia eticamente superiore alla cura dei propri interessi, che la legalità ed il rispetto delle norme sia sacrificabile sull'altare della solidarietà.
Il che è, per chiamare le cose con il loro nome, pedagogia sociale; ma non è ragionamento politico.
Una pedagogia del tutto identica, nelle sue premesse e nei suoi effetti, a quella che subisce la figura maschile nella cultura quotidiana, nella prospettiva di un mondo apparentemente sempre più votato alla dimensione umanitaria ma che, perversamente, risulta sempre meno umanamente riconoscibile, governabile e prevedibile.
Un mondo sempre più anomico, nelle sue strutture di senso comune, in quanto affidato al soggettivismo improvvisato di anime belle in vetrina.
L'anteprima di quella situazione di caos derivante dalla messa all'angolo dei valori maschili, capaci di ordinare l'esperienza secondo un disegno consapevole ed oggettivo.
Sembra opportuno, a questo riguardo, chiudere con il monito di Cofrancesco: «stiamo attenti, però: nessuna delle dimensioni che strutturano l’essere umano si lascia sopprimere senza reazioni. Una politica resa schiava dalla morale può rompere le sue catene e riemergere come volontà di sopravvivenza e di potenza sorda ad ogni richiamo alla solidarietà e indifferente ai dettami della coscienza.»
Segnali molto precisi in questo senso percorrono già l'Europa in molte direzioni.