Identità collettive - il donnismo - terza parte

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Gustav Le Bon
L'opera di G. Le Bon potrebbe apparire superata ed inattuale per spiegare il fenomeno che abbiamo definito "donnismo", eppure non è così, quantomeno sulla base delle evidenze storiche e teoriche.
Il testo che abbiamo preso in considerazione può essere considerato il primo vero strumento critico attraverso il quale è stata resa esplicita, in chiave scientifica, la manipolabilità psicologica dei gruppi sociali per mezzo di sistemi di propaganda prolungati e sistematici e, quindi, in tal modo, la possibilità concreta di assoggettare l’opinione pubblica o parte di essa a vere e proprie forme di condizionamento del pensiero da parte di élite capaci di sollecitare le dinamiche emotive dell’identificazione comune.
L’intera storia successiva del novecento, con i suoi grandi movimenti ideologici di massa che avrebbero portato a contrapposizioni violente e bellicose di diversi “noi” rispetto ad altrettanti “loro”, sta a documentare come l’interpretazione degli avvenimenti sociali nella particolare ed innovativa (per l’epoca) chiave di lettura dell’Autore considerato avesse una sua precisa validità esplicativa e predittiva; è, inoltre, noto che i grandi demagoghi del secolo europeo (Mussolini, Hitler e, pare, lo stesso Stalin) siano stati attenti cultori delle teorie di Le Bon, traendone spunti per il successo delle proprie capacità retoriche di addomesticamento del sentimento popolare, nonché mediante il massiccio ricorso alla tecnica manipolatoria individuata come affermazione – ripetizione – contagio (si consideri, comunque, l’ossessivo risalto dato agli apparati della propaganda da ciascuno dei regimi considerati).
Gli sviluppi scientifici della psicologia sociale che ne sarebbero seguiti, pur raffinando ed ampliando temi, metodi e prospettive della ricerca, avrebbero finito poi per avvalorare sostanzialmente i capisaldi generali delle teorizzazioni in questione, senza poter arrivare a sconfessare la natura potenzialmente irrazionale ed estremistica dell’identificazione collettiva in un gruppo, il suo carattere fideistico e dogmatico, la sospensione della capacità critica individuale nella logica dell’adesione alle finalità comuni o della sottomissione ad un capo carismatico; soprattutto ed in modo particolare, senza poter arrivare a smentire il fenomeno per il quale una propaganda ben orchestrata e finalizzata a scopi politici può arrivare ad alterare persino le capacità percettive e valutative dei singoli individui, portandoli ad uniformarsi acriticamente anche a definizioni della realtà sociale deformate o grossolanamente mistificate (*).

Se ora, sulla base di questa rapidissima incursione nelle teorie che avrebbero dato origine e sviluppo alla psicologia sociale, torniamo ad analizzare il “donnismo” possiamo arrivare a trarre alcune conclusioni di ordine generale.
Sarebbe sin troppo facile affermare che il femminismo, sin dalle sue origini, nello sforzo di promuovere un astratto ed improbabile principio di eguaglianza sostanziale tra i due sessi, ha prodotto una propaganda sistematica e continuativa sul tema “donne” facendone motivo di un’identificazione collettiva nei termini esatti che, come abbiamo visto, erano stati affrontati da Le Bon nel suo “La folla psicologica”.
Facendo leva sulla dimensione emotiva della condizione femminile - descritta come un’insopportabile susseguirsi storico di discriminazioni sociali, di soprusi, di violenze, di confinamenti domestici nel “destino biologico” della maternità e di sottomissione alla volontà maschile – la propaganda femminista costruisce, dagli anni settanta in poi, una figura idealtipica di donna/vittima nella quale finirà per rispecchiarsi e riconoscersi, anche laddove ne manchino i presupposti individuali o la volontà soggettiva, la pratica totalità della popolazione femminile occidentale.
Costruisce, inoltre, un modello alternativo di identità femminile con pretese universali e generalizzanti; uno stereotipo a cui finiranno per adeguarsi – supinamente ed in modi spesso spersonalizzati e distanti dalle inclinazioni personali – intere generazioni di giovani donne. Per aderire al modello "libera ed emancipata" molte di esse entrano in conflitto con i propri bisogni più autentici di sicurezza affettiva, di maternità e di passività sessuale. Inconsapevoli di essere state condizionate ad entrare in guerra contro la propria natura - prima ancora che contro il mondo maschile, verso cui si scaglia il rancore collettivo suscitato dalla propaganda - moltissime finiranno per alimentare il mercato delle psicoterapie, il consumo di psicofarmaci e le statistiche delle dipendenze compulsive; alcune arriveranno a percepire la maternità come un ostacolo alla realizzazione personale e andranno ad incrementare sensibilmente il fenomeno abortivo, nonché quello ancora più crudele dei maltrattamenti e della soppressione dei figli.
Dai primi anni novanta - venuti meno i motivi delle rivendicazioni immediate (indipendenza, lavoro, libertà sessuale, esclusivo dominio sui diritti procreativi e sui diritti familiari) - una massiccia campagna politico-mediatica, organizzata e condotta da sacerdotesse del femminismo ben inserite nei quadri intellettuali del pensiero progressista e nelle istituzioni occidentali, vanno rielaborando una “falsa coscienza” vittimistica della condizione femminile, sino a spacciare e promuovere affermazioni false o destituite di qualunque serio fondamento che prendono di mira un nemico silenzioso, invisibile e completamente immaginario: il maschilismo.
Espressioni insensate come - "uccide più donne il partner del cancro o degli incidenti stradali" o "il femminicidio in occidente" - oppure le cifre esorbitanti della violenza sulle donne, tutte affermazioni fondate su una mistificazione a dir poco abnorme e stupefacente delle statistiche effettive, continuano a circolare da anni, seguendo la tecnica già descritta come affermazione-ripetizione-contagio. La sospensione delle capacità critiche e percettive individuali di cui tratta la psicologia sociale si assevera nell'accettazione supina ed acritica di queste false affermazioni da parte dell'opinione pubblica femminile e non solo; la ripetitività, spesso ossessiva, di queste descrizioni mistificatorie sul piano mediatico conduce, inevitabilmente, a quel contagio generale di cui parlava Le Bon e che potremmo definire come una sorta di stato ipnotico collettivo e di sospensione della capacità razionale intorno alle tematiche di merito.
Il vittimismo femminile, che con le conquiste sociali acquisite sembrava destinato ad un onesto declino, torna ad essere così fomentato manipolativamente, andando a consolidare i contorni di un'identità collettiva nella quale le differenze individuali tornano a scomparire e vanno a rinsaldare quella logica comportamentale indifferenziata che abbiamo definito "donnismo".
Sin qui le spiegazioni, in chiave di manipolazione psicologica generale, che possiamo riconoscere e "toccare con mano" nei contenuti quotidiani della cultura dominante, cosiddetta women-friendly, oltre che nei comportamenti soggettivi che abbiamo richiamato nella prima parte.
C'è, tuttavia, un altro e fondamentale aspetto che Le Bon ci ha messo a disposizione per intepretare questi fatti sociali in una prospettiva di senso generale.
Le masse (le identità collettive, diremmo noi) "...hanno - scriveva l'Autore - istinti conservatori irriducibili e, come tutti i primitivi, un rispetto feticista per le tradizioni, un orrore incosciente per le novità capaci di modificare le loro condizioni reali di vita".
A prima vista, una simile asserzione potrebbe apparire in contraddizione con la realtà dei fatti, con gli innegabili mutamenti nelle condizioni di vita della donna media occidentale e con la trasformazione degli stili esistenziali che hanno preso piede attraverso la rivoluzione femminista della società.
Ad un'osservazione più attenta, tuttavia, ci si accorge che questo non è del tutto vero e, forse, non lo è affatto.
Agli effettivi cambiamenti di status e di possibilità sociali si associa, infatti, la più ferrea conservazione dei privilegi tradizionali; a dispetto della pretesa uguaglianza sulla quale si vorrebbero rifondare i rapporti con gli uomini la stragrande maggioranza delle donne si guarda bene dal tradurre questo obiettivo in chiave personale, limitando il richiamo ai diritti egualitari ai soli casi in cui questo può tornare strumentalmente utile ai propri scopi.
Nulla, in realtà, muta nelle aspettative femminili verso il mondo maschile, basate, oggi come ieri, sul bisogno di protezione, di deferenza, di ricchezza materiale e di riconoscimento estetico; ossia, sul bisogno di sentirsi in una costante situazione di credito, in cui tutto (o quasi) le è dovuto e nulla è, da lei, dovuto a lui.
Nulla, conseguentemente, cambia nei comportamenti minuti e quotidiani nei quali la singola donna ritrova sé stessa nella situazione concreta di sempre.
Inoltre, piuttosto che adeguarsi alle regole competitive del gioco sociale nella vita di relazione, nel lavoro, in economia e nella politica, la pretesa femminile prevalente è quella di mantenere uno status privilegiato (quote rosa, corsie preferenziali, legislazioni di favore eccetera) che rappresenta l'identica versione, aggiornata in termini formali ma non sostanziali, degli antichi obblighi di ossequiosa "cavalleria" che caratterizzavano i rapporti del passato.
La richiesta di "compensazioni" che in passato erano tributate alle donne per la loro relativa marginalità sociale, oggi sono richieste a gran voce dalle donne stesse come diritti irrinunciabili nonostante il raggiunto protagonismo sociale; la pretesa apparente di fondare un'uguaglianza sostanziale al di là del sesso biologico è una fumosa ed illusoria cortina dietro la quale si cela la reale pretesa di conservazione dei nuovi ed aggiornati vantaggi che derivano dallo status di "soggetto debole e svantaggiato".
Una riformulazione dell'antica locuzione "sesso debole" contro la quale i femminismi hanno combattuto - e continuano a combattere - una guerra ideologica senza quartiere (e senza logica).
Dove sia la conservazione e dove la presunta innovazione apparirà evidente.
Per non dilungarci eccessivamente, possiamo concludere che - esattamente come aveva teorizzato il grande psicologo francese - il mondo femminile afflitto dal donnismo (quasi la totalità) è una "folla psicologica" che, quando si innesca il meccanismo del condizionamento ideologico, agisce, parla e chiede con la contraddittorietà di un'unità psichica elementare.
I cultori e le cultrici del donnismo - quelle stesse "anime belle" che sarebbero pronte a scagliarsi con la più feroce delle indignazioni contro chi generalizzasse su ebrei, negri o immigrati - non esita minimamente a concepire il mondo femminile come un tutto indifferenziato e positivo; per potersi affermare in questi termini deliranti e totalitari c'è necessità di un nemico contro cui affermarsi e sappiamo anche chi sia il nemico ed a quali generalizzazioni negative e collettivamente colpevolizzanti sia sottoposto il mondo maschile.
Se Gustav Le Bon non avesse previsto qualcosa di simile, nelle dinamiche, oltre un secolo fa ci sarebbe di che preoccuparsi; ma si tratta solo di attraversare un nuovo secolo di contrapposizioni ideologicamente costruite, camminare sulle rovine della vita privata che causerà in forme sempre più aspre e rimpiangere il momento che la distruzione irragionevole ha avuto inizio; dopo di che tutto tornerà nella normalità naturale di sempre.
E' il prezzo da pagare al nazi-femminismo ma, secondo lo psicologo francese ed anche secondo noi, è un prezzo che ad una "folla psicologica" non si dovrebbe concedere tanto facilmente.


Nota:
(*) – Si pensi, a tale riguardo, alle fondamentali ricerche sperimentali condotte nei decenni seguenti e riportate dallo psicologo sociale Solomon E. Asch, nel suo trattato “Psicologia sociale” (SEI, 2^ ed. 1981), con particolare riferimento alle deformazioni percettive prodotte sull'individuo dall'opinione o dal giudizio prevalente delle maggioranze.

Tra i molti, uno degli esperimenti illustrati al capitolo XVI prevedeva che a più individui singolarmente presi venisse chiesto di indicare quale oggetto (con evidenze dimensionali molto nette) fosse più grande di un altro, nel contesto di un gruppo il quale, a sua volta, veniva istruito a mistificare la percezione delle dimensioni oggettive ribaltando, in modo unanime, l’ovvietà della misurazione visiva nel suo contrario. Una buona parte dei soggetti esaminati nelle condizioni controllate (c.d. soggetti critici) finirono per uniformarsi al giudizio della maggioranza, arrivando a negare la banale evidenza delle misure obiettive effettivamente e soggettivamente percepite.

Un altro dato sperimentale - riguardante la sospensione del giudizio e, in particolare del giudizio morale in certe condizioni guidate - prevedeva che singoli soggetti venissero reclutati, da persone apparentemente dotate di grande autorevolezza, per partecipare a finti esperimenti scientifici; essi venivano chiamati ad eseguire compiti crudeli come premere un pulsante per mandare una scarica elettrica nel corpo di una cavia umana posta dietro ad un vetro, in modo, ovviamente, del tutto simulato, sia da parte degli scienziati fittizi, sia per quest’ultimo che recitava espressioni di sofferenza ad ogni nuova pressione del tasto. La maggior parte delle persone esaminate, inconsapevoli di essere in realtà essi stessi i soggetti sotto osservazione, eseguirono fedelmente l’incarico - seppure alcuni con grandi tensioni personali - senza rifiutarsi di causare sofferenze fisiche alla cavia-attore e senza interrogarsi sulla liceità e sulla moralità dell’esperimento.

Per brevità di trattazione si fa rinvio, per i particolari e per la mole di dati sperimentali riportati, al ponderoso testo in questione.