Identità collettive - il “donnismo” - prima parte

C’è un’identità collettiva che percorre, in lungo e in largo, la nostra esperienza quotidiana, manifestandosi spesso al cospetto maschile, sbandierata comunque in ogni dove, benché ad intervalli irregolari in funzione delle esigenze psicologiche del momento; quell’identità qualificante ed onnicomprensiva si chiama “noi donne”.

‘Noi donne’ è il comodo abito collettivo di cui si vestono le singole tizie, caie o sempronie, non solo quando si tratta di rivendicare diritti, lamentare torti presunti o accampare aspettative di vario tipo, anche personali; ma anche, se non soprattutto, in quelle forme di auto-celebrazione antropologica che derivano, in forma quasi immediata e diretta, da qualunque risultato femminile raggiunto.
Se la Schiavone vince il Roland Garros, com’è accaduto a Parigi nel giugno scorso, non è perché la Schiavone è una tennista più brava di altre tenniste, ma perché è una donna e – come ormai si usa dire in ogni occasione olimpica – le donne ottengono risultati sportivi migliori degli uomini (benché li ottengano contro altre donne e non certo contro gli uomini).

Se la dissidente birmana riceve il nobel per la pace non è perché ha sacrificato la sua personale esistenza ad un ideale di democrazia – come moltitudini di uomini hanno fatto e fanno da secoli prima di lei – ma perché è una donna ed il coraggio delle donne diventa un requisito collettivo di cui la San Suu Kyi è solo la rappresentante ufficiale, l’espressione più evidente e pronunciata; tutte le altre godono di un’irradiazione indiretta per il solo fatto di condividerne la biologia corporea e la psicologia di base.
Tien An Men
Le “madri coraggio” di Plaza de Mayo, nell’Argentina di Videla, non sono ricordate come singole persone coraggiose, ma come madri e donne; lo studente che nell’89, a Piazza Tien An Men, si oppose con il proprio corpo ai carri armati cinesi con un coraggio veramente straordinario che rimarrà scolpito nella mente e nel cuore di molti, invece, non viene ricordato come uomo ma come singolo e particolare individuo, distinto da tutti gli altri.

In tutte le occasioni menzionate, a titolo meramente esemplificativo, l’io soggettivo della singola donna scompare per lasciare spazio ad un ‘noi’ indeterminato, uniforme e monolitico in ragione del quale tutti gli esemplari di quella medesima categoria umana – le donne – assumono una sorta di identità comune, quasi identiche sembianze, sicuramente le medesime qualità come se fossero una dotazione di serie industriale che si lascia intravedere in pochi isolati esemplari ma che deve essere presupposta, grazie a queste occasionali rappresentanze, per automatica estensione anche in tutte le altre.

A nessun uomo, per dirla altrimenti, verrebbe mai in mente di considerarsi un genio per il solo fatto di condividere con Einstein la medesima costituzione sessuale o di ritenersi un grande letterato perché Dante, un uomo, ha scritto la Divina Commedia; alle donne, invece, succede spesso - se non sempre - ed ogni traguardo raggiunto dalla singola tizia diventa una specie di vittoria di categoria, una medaglia al valor comune femminile.

la deificazione
Questa singolare ed inspiegata, per il momento, psicologia femminile la chiameremo “donnismo” - che non è un neologismo, essendo stato già impiegato in diverse occasioni - e che rappresenta una specie di certificazione di qualità umana, una teoria della razza superiore che deve intendersi presupposta, pregiudiziale, oltre che cumulativa e nella quale moltissime trovano frequentemente forza, riparo e assistenza.
Naturalmente, nella circostanza sfavorevole l’identità collettiva viene prontamente ammainata e risorge l’ego individuale – che più individuale non si può – nelle abituali espressioni: ‘io non sono come tutte le altre’, ‘tu non mi capisci’, ‘non siamo tutte uguali’ e via di questo abituale passo; il frasario lo conosciamo tutti per esperienza diretta.
Ma alla prima occasione utile ecco che il donnismo si rianima, si riaccende e si qualifica per asseverare una garanzia di qualità superiore; noi donne, tutte brave, belle e buone.
Tutte uguali l’una all’altra, insomma.

Di donnismo sono afflitti anche molti uomini – la maggior parte, a dire il vero – quasi tutti in posizione adorante e postulatoria.
Dimentichi delle proprie qualità umane, personali e di categoria (per così dire), essi non esitano a dequalificarsi con espressioni che liquidano sé stessi (e tutti gli altri) come esseri inferiori: ‘…e certo che le donne sono un’altra cosa’ – ‘noi poveri maschietti senza cervello’ – ‘quanto siamo stupidi’ eccetera, eccetera, eccetera…
Tafazzi(smo)
Dell’intero fenomeno del donnismo questa è la parte più patetica anche se origina dalla medesima fonte; di sicuro è la prima volta nella storia umana che un’intera parte della popolazione, accomunata da caratteristiche simili, pensa a sé stessa con tanto disprezzo.

Come spiegare un fenomeno tanto aberrante e contronatura?

Nella seconda parte di questa riflessione generale cercheremo di mettere a fuoco una parte del problema qui accennato, facendo appello e riferimento ad uno dei classici del pensiero, pioniere della psicologia sociale moderna e profeta del nostro tempo: Gustav Le Bon.

[continua]