Gran Torino – elogio della virilità
Premetto che il mondo dello spettacolo non mi appassiona in alcun modo, guardo poco la tivvù e ancora meno vado al cinema, non fosse altro che per l’overdose di femminino che ci si trova ormai dentro.
Fateci caso, trasmissioni o spettacoli sul coraggio, sulla lealtà, sull’onore, film western, di guerra, le grandi trasformazioni o cose simili non se ne fanno quasi più; vicende e valori sepolti nel passato, indegni di essere rappresentati, magari riproponibili come documenti di repertorio di epoche lontane.
Tutto è diventato “relazionale”, psicologico, intimistico; pure se ti ripropongono la vita di Alessandro Magno o di Napoleone lo fanno andando alla ricerca introspettiva dei personaggi, la sfera dei rapporti e degli affetti. Mica mettono in scena le battaglie o le conquiste, ti parlano dei loro amori e dei traumi infantili, della figura materna e della sessualità, dei tic e delle manie, di com’erano e come non erano dietro le apparenze pubbliche.
Per i contemporanei produttori di cultura popolare la vita di dentro è più importante della vita di fuori; la loro è l’epoca della psicocrazia e sembrano tutti cresciuti tra lettino dello psicanalista, novità di giornata del Grande Fratello ed entusiastici gay pride.
Sicché è da ascriversi assolutamente al caso il fatto che, saltellando da un canale all’altro in preda all’abituale noia impaziente, mi sia imbattuto in uno di quei film che non ti aspetti ormai più di vedere e che non sospetti neanche possa essere ancora immaginato da qualcuno: Gran Torino, di Clint Eastwood.
Premessa la mia sostanziale ignoranza in cose di cinema - motivo per il quale questa non vuole essere una recensione ma solo le personali impressioni di uno spettatore - mi arrischio a commentare questa pellicola in quanto credo che meriti una particolare sottolineatura per i contenuti narrativi che vanno in una direzione completamente opposta rispetto al trend generale, nel senso che vado a precisare.
Gran Torino è un film che non ti aspetti perché è un film sulla virilità, parola sporchissima di questi tempi, praticamente bandita dal vocabolario quotidiano; termine da considerarsi un residuato del passato come quella Ford Gran Torino, vecchia auto d'epoca (del '72), che il protagonista, invece, custodisce gelosamente, lucida e fiammante come appena uscita dalla fabbrica.
Anche il protagonista - Walt Kovalski, interpretato dallo stesso Eastwood - è l'esatto contrario dell'uomo sensibile, emotivo e relazionale che un’agiografia politicamente corretta vorrebbe imporre come il nuovo modello maschile di riferimento.
Lui è, invece, il vecchio americano spigoloso che ha fatto la guerra di Corea e guarda con disprezzo quei "musi gialli" che, per ironia della sorte, sono diventati ora i suoi vicini di casa; è chiuso al nuovo e al diverso, è tutt'altro che pacifista ed è ironicamente refrattario anche al buonismo invadente del parroco che vorrebbe assisterlo dopo la morte della moglie.
E' lontano anni luce persino dai sui stessi figli maschi, ormai perfettamente integrati nel nuovo way of life americano, le cui preoccupazioni fondamentali stanno nell'accumulo di beni e nella ritualità formale dei rapporti sociali.
Kovalski beve, fuma e conserva la sua vecchia carabina che, all'occorrenza, tira fuori per delimitare il suo spazio privato, è solitario, di poche parole ed orgogliosamente indipendente; è un personaggio che uno come Niki Vendola - tanto per fare un nome - guarderebbe con disgusto e riprovazione eco-pacifista.
A far comprendere l'importanza dei valori e del valore di Kovalski nel contesto della vita quotidiana – quella vera - ci pensa, però, proprio la famiglia di immigrati orientali che vive nella casa accanto, dove l'assenza di una figura maschile rassicurante e protettiva è avvertita come un problema, anche in relazione al disorientamento nel quale si dibatte il giovane figlio maschio.
Sarà proprio una mal riuscita "prova di coraggio" del ragazzo - verso la quale è spinto da una gang di quartiere, che ne vorrebbe fare uno dei loro - a dare l’avvio ad un rapporto tra il giovane orientale ed il burbero anziano, per il quale uno spontaneo istinto di protezione paterna finisce per prevalere sulla scorbutica avversione per l'etnia dei vicini e per la loro invadenza.
Il coraggio del protagonista – un coraggio altruistico, disinteressato, fermo e di poche parole – sarà una sorta di paternità putativa ed un prezioso insegnamento di vita per il ragazzo il quale, a conclusione della storia, erediterà la vecchia Gran Torino, come a simboleggiare l’avvenuto passaggio di consegne di una virilità che si sarà rivelata essere un valore umano tutt’altro che superato ed inutile.
Anche per non anticipare gli sviluppi narrativi, occorre dire che nel film c’è sicuramente più di quanto queste poche battute consentono di focalizzare: c’è l’interpretazione di Eastwood, magistrale nel dare vita ad un personaggio tanto lontano dagli stereotipi odierni; c’è l’evocazione di un’altra forma di virilità prepotente, fatta di eccessi e trasgressione, contro la quale la tranquilla determinazione del protagonista si erge, protettivamente, senza troppi giri di parole; c’è soprattutto la rappresentazione di un modo di essere uomini che esce dagli schemi precostituiti con i quali abbiamo a che fare quotidianamente e che vorrebbe “cambiare gli uomini” secondo logiche intrise di presuntuosa demagogia.
C’è un ritorno di attenzione sulla virilità inatteso e sorprendente e questo è il motivo per il quale ne parlo e per il quale suggerisco, a chi voglia entrare in contatto con la difficoltà di diventare uomini, di comprenderne i passaggi decisivi, di intuire l’importanza di una figura paterna nelle delicate fasi in cui ciò si realizza (o non si realizza), di andare a vedere questo film; come spesso si dice, una storia ben raccontata può spiegare e far capire più di mille intellettualismi.
Trattandosi di virilità, la conclusione di questo breve commento voglio affidarla alle parole di un altro narratore, che ne dà – e ne ha saputo dare con tutta la propria opera - una definizione straordinaria:
….avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere, preferibilmente e saggiamente, con le probabilità a suo favore, ma in caso di necessità deve combattere anche contro qualunque probabilità e senza preoccuparsi dell’esito. Deve seguire i propri usi e le proprie leggi tribali, e quando non può, deve accettare la punizione prevista da queste leggi. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un’onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino. (Ernest Hemingway)