La Questione Maschile come questione politica
Il grande polverone mediatico sollevato di recente dal noto articolo di Massimo Fini su "Il Fatto", la crescente visibilità anche televisiva di ingiustizie giuridiche consumate in danno di padri separati ed altri contributi editoriali non privi di risonanza pubblica stanno a documentare come la "questione maschile" (brevemente QM) stia cominciando a filtrare, quale argomento di cultura politica, anche in sedi più ampie di quelle ristrette cerchie internettiane dove, normalmente, questa espressione ricorre ormai da diverso tempo.
Ma cosa si intende per questione maschile?
Darne una definizione sintetica potrebbe rivelarsi semplificatorio e riduttivo, trattandosi di una fenomenologia che investe sfere molto ampie della vita associata e di quella individuale.
Tuttavia, una definizione si rende quanto mai opportuna e va tentata.
Limitarsi ad identificare la QM nel fenomeno della misandria - ossia dell’ostilità pregiudiziale verso il "maschio" - che si registra sul piano dei comportamenti diffusi, nella prassi giudiziaria e nei conseguenti effetti sociali non consentirebbe di cogliere le cause profonde del problema; la misandria è, in altre parole, la punta di un iceberg rispetto al quale l’interrogativo che rimane irrisolto è : "cosa la rende possibile nei modelli culturali del mondo occidentale che, per statuto, nega legittimità ad ogni altra forma di discriminazione ideologica, tranne questa?".
Indubbiamente, sul piano politico-filosofico il femminismo, con la sua critica al "dominio maschile" e con la sua interpretazione della storia come storia di oppressione delle donne, ha posto le basi per un antagonismo femminile materialmente "vissuto" che ha assunto, rapidamente, il senso di una critica tout court verso il "maschio", il suo sistema simbolico ed il suo valore umano.
Eppure questo dato irrefutabile ancora non spiega come mai un movimento sostanzialmente di nicchia - sono davvero poche le donne che si dichiarano apertamente femministe e molte, invece, quelle che ne condannano gli eccessi - sia riuscito a fare del proprio messaggio un fattore di condizionamento delle culture politiche, tanto da essere stato assimilato nel "sentire comune" in modo pressoché acritico.
Forse, allora, le radici del problema sono ancora più in profondità.
Ad una riflessione più generale, le concezioni politiche che si sono andate affermando in questi primi anni del terzo millennio hanno continuato gradualmente a spostare il fulcro della propria attenzione, l’oggetto del contendere politico generale, dall’economia all’etica, dal pubblico al privato, dalla politics alla policy, dalla comunità all’individuo, proseguendo una tendenza già avviata, negli anni del c.d. "riflusso", dall’individualismo esasperato dell’io radicale e dai valori edonistici della c.d. "società debole".
I temi della "biopolitica", le questioni di coscienza, la critica all’anomia morale della finanza e le contrapposizioni via via più aspre tra fede e laicismo - per non parlare di quegli atteggiamenti di militanza imbevuti sempre più spesso di indignazioni etiche, piuttosto che di rivendicazioni sociali definite - ricorrono con sempre maggiore frequenza nei dibattiti pubblici mentre, contestualmente, sempre minore attenzione viene posta ai paradigmi classici dell’economicismo materialista con i quali, da Marx in avanti, si è solitamente descritta l’evoluzione della società; la globalizzazione avrebbe, in effetti, reso anacronistica la tradizionale critica al modello di sviluppo economico, aprendo la strada ad altre forme di aspirazioni soggettive e di conflittualità sociali.
La politica, insomma, starebbe cambiando i propri obiettivi.
Riducendo al massimo la complessità delle filosofie politiche da cui questi fenomeni traggono forza e movimento, si potrebbe dire che le ormai antiche contrapposizioni tra detentori di privilegi materiali ed esclusi hanno ceduto il passo a nuove forme di contrapposizione, di grande coinvolgimento emotivo per l’opinione pubblica, nelle quali la posta in gioco non è più - o non tanto - il potere materiale, quanto, piuttosto, il potere morale.
Ma è veramente così?
Possiamo abbozzare una risposta se tentiamo di risalire al momento in cui alcune forze ideologiche - quelle miranti alla realizzazione della "società perfetta" - hanno modificato il proprio ruolo trasformandolo da progetto di governo della società a progetto di governo delle coscienze individuali.
L’impegno politico diventerà, in questa luce, affermazione di valori universalistici - calati dall’alto - a cui il popolo deve essere "educato".
Sino ad un dato momento storico, che possiamo riconoscere nella rivoluzione culturale del ’68, quantomeno nel nostro Paese, la competenza in materia morale - la definizione condivisa del bene e del male - è affidata alla dimensione religiosa ed, in essa, il governo delle coscienze è demandato alla visione escatologica della Chiesa.
Più delle sanzioni della giustizia umana (e parallelamente ad esse, che ne mutuano il senso nell’ottica sociale) è il senso di colpa lo strumento psicologico di questa amministrazione delle coscienze che, tuttavia, non mira alla realizzazione dell’individuo perfetto, né della società perfetta, ma solo a dettare le regole della vita "grata a Dio" in prospettiva ultraterrena; modelli etici che, peraltro, anche sul piano sociale consentono una convivenza pacifica ed ordinata, benché in qualche misura repressa sul piano istintuale.
Inoltre, a differenza di quanto avveniva per il calvinismo (come ci ha insegnato M. Weber), i comportamenti "in odore di santità" sono solo un focus a cui tendere per il singolo cattolico, in quanto neanche la Chiesa ignora o nega le umane imperfezioni, tanto da prevedere il perdono della "Confessione" o, addirittura, il semplice pentimento, anche dell’ultimo istante di vita, per la redenzione di un’intera vita di peccati (o di incapacità operosa).
Con il sessantotto la critica alla moralità tradizionale di origine religiosa ed a tutto ciò che ad essa si ricollega sul piano sociale (famiglia, ruoli, merito, gerarchie) diventa occasione per una rifondazione dell’etica su basi antagonistiche.
Come ogni movimento rivoluzionario, anche il ’68 mirava ad una trasformazione radicale dei rapporti sociali, nel senso di un ribaltamento puro e semplice del passato e dell’ordine sociale, ma la sua specificità storica sta, in misura particolare, nel fatto che esso trasferisce la rivoluzione dalla politica alla cultura, negando a quest’ultima ogni forma di legittimità in quanto cultura delle classi dominanti.
Tutto ciò che è espressione delle culture tradizionali deve essere rovesciato nel suo contrario; emancipazione, la parola chiave del nuovo paradigma antropologico, significa, innanzitutto, negazione di qualunque validità al sistema di valori allora vigente, una "grande marcia" utopica verso l’emancipazione dal passato, dalla religione, dai pregiudizi, dal consumismo.
Come è stato già scritto...."Il ’68 contrappone in un modo totale la trasparenza del sociale al feticismo dell’economico, del politico e del legale. Il profitto, la ragion di Stato e l’apparato della legge subordinano a sé ogni istanza che nasce dalla comunità, dalla comunicazione, dall’autocoscienza. Il centro del sociale è la critica delle ideologie che svela l’inganno con cui l’economia, la politica e la legalità vogliono imporsi come «verità oggettive, impersonali, necessarie».
L’esempio più evidente dell’estremismo con cui il ‘68 oppone la trasparenza del sociale a tutte le forme del feticismo è il concetto sessantottesco di malattia mentale incarnato nella legge 180. Il malato di mente, l’operaio, la donna, devono «diventare protagonisti della trasformazione sociale e quindi della loro liberazione». Ogni condizione umana distorta è costruita in un processo distorto di comunicazione sociale camuffato come «naturale». Ogni condizione umana è perciò modificabile attraverso un rifiuto di farsi imporre un’identità distorta da una comunicazione distorta. Curare vuol dire far riconoscere al malato il legame tra la sua condizione di sofferenza e la distorsione della comunicazione, l’opacità sociale di cui è vittima. Solo una «rivoluzione sociale» può liberare il malato dai suoi sintomi.
Gianini Belotti mostrava nel libro "Dalla parte delle bambine" come anche la differenza maschio-femmina è un prodotto dei modelli distorti di comunicazione sociale interiorizzati e istituzionalizzati in tutta la società. La rivoluzione sociale consiste nello svelare i modelli distorti di apprendimento sociale dietro ogni diseguaglianza tra gli uomini. Così finalmente «si potrà spezzare la catena di condizionamenti che si trasmette pressoché immutata da una generazione all’altra».
La «Grande marcia» verso il predominio del sociale su tutti gli altri aspetti della vita è il kitsch della sinistra."
Rivisitando la storia come storia di oppressione simbolica, la critica al modello di sviluppo - da cui siamo partiti - acquisisce rapidamente il senso di una critica radicale al modello di trasmissione della cultura, di apprendimento e di elaborazione del pensiero.
L’identità personale non è più, secondo questo mutamento di prospettiva, un dato naturale che scaturisce spontaneamente dal corredo biologico, da quello genetico e dalle diversità in essi radicate; l’individuo diventa una costruzione socio-culturale nella quale i condizionamenti a cui esso è sottoposto dall’educazione possono essere modificati in modo consapevole da altri condizionamenti di segno differente e contrario.
Un ruolo tutt’altro che secondario per l’affermarsi di questa prospettiva è stato svolto, inoltre, dal rapido sviluppo delle discipline psicologiche sin dagli inizi del ’900.
L’idea che la psiche fosse un terreno di indagine scientifica come un altro, passibile di interventi e tecniche di manipolazione tali da indurre a “cambiamenti” delle condizioni soggettive, rappresentava il fulcro concettuale di discipline sperimentali come il comportamentismo (Watson, Skinner) e il successivo cognitivismo, mentre anche la psicologia sociale avviava ricerce specifiche sul “conformismo” e sulle strategie di promozione del consenso sociale.
La psicologia individuale e collettiva diviene così, il laboratorio nel quale sperimentare nuove forme di controllo sociale, in sostituzione di quelle tradizionalmente legate ad ideali di moralità religiosa.
La medicalizzazione del disagio personale e del dissenso politico (che troverà nelle repressioni psichiatriche del comunismo sovietico la sua espressione più conclamata) si fonda sulla concezione della malleabilità della psiche umana; sul postulato di un rapporto tra individuo e società nel quale l’uno dipende, si forma e si definisce, in funzione dei condizionamenti della seconda.
Non è più l’individuo a fare la società – ed a trasformarla politicamente in funzione dei propri bisogni - ma è la società a fare l’individuo ed a trasformarlo, se del caso, in funzione delle concezioni dominanti e delle esigenze di ingegneria sociale del momento storico.
Il positivismo scientifico in questi settori della conoscenza, unito all’analogo entusiastico spirito positivistico riguardo alle possibilità umane di controllare la natura per renderla conforme ai propri bisogni, induce alla negazione di una “natura umana” definita e stabile, quale quella che era stata teorizzata dal contrattualismo giusnaturalistico di Hobbes (bellum omnium contra omnes), di Locke e, in modi diversi, da J.J. Rousseau.
Nonostante le molteplici e importanti differenze di pensiero esistenti tra questi autori, è ad essi che dobbiamo il perfezionamento di quella concezione contrattualistica che postula la preesistenza di una natura umana alla società e, quindi, alla cultura cui essa dà vita e di una lex naturalis che precede e su cui si fonda ogni ordinamento giuridico che non voglia essere semplice e neutro arbitrato dei molteplici motivi di dissidio sociale.
Natura preesiste quindi a cultura ed è la seconda a dipendere dalla prima per la sua formazione, per la sua possibilità di vita e per i modi del suo stesso evolversi.
Per tirare qualche somma da questo prolungato, seppur sommario ed incompleto, excursus alla ricerca delle nostre risposte di senso, si può dire che esistono, quindi, al fondo di tutte le infinite implicazioni possibili di merito specifico, due diverse e sostanziali visioni della società e della vita che, dal sessantotto in avanti, si fronteggiano sul proscenio di quel teatro della cultura che sta diventando il luogo prevalente del conflitto politico.
Da un lato il c.d. fronte progressista, che annovera tra le proprie fila il positivismo giuridico, lo scientismo, il laicismo, l’egualitarismo utopico, il solidarismo, il culturalismo, il femminismo, l’ambientalismo e il libertarismo radicale.
Paradigma costitutivo di questo fronte ideologico popolato di "ismi" di ogni sorta è che l’individuo e la sua identità personale possono, anzi, devono essere costruiti con operazioni di ingegneria sociale decise dall’alto; stuoli di specialisti di ognuna di queste discipline si affannano nell’elaborazione degli strumenti educativi o rieducativi adatti ad uniformare l’individuo ad un ideale astratto di civismo pubblico e privato.
Tramontata, per condanna della storia, la possibilità di rivoluzionare la società attraverso il sovvertimento dei rapporti di produzione economica, la strada del cambiamento utopico passa, ora, attraverso il costante tentativo di una ri-evangelizzazione laica e progressista delle coscienze, che sostituisca la prospettiva di senso religiosa e morale su cui l’esistente è stato fondato e che ponga le premesse per un nuovo universalismo su basi politiche.
Così come la natura può essere forzata con la modificazione genetica del mais, con la clonazione delle pecore e con la fecondazione assistita, anche la natura umana sembra potersi modificare ad libitum, secondo un programma politico che ha per obiettivo il più banale e prevedibile controllo sociale di sempre: un nuovo conformismo ottenuto con la propaganda ideologica di insopportabili ingiustizie sociali, di catastrofi imminenti cui porre riparo, con la medicalizzazione educativa dei rapporti umani.
Una nuova antropologia umana elaborata a tavolino, in sintesi, cui spetta solo uniformarsi, in base ad un universalismo politicamente costruito che costituisce, per definizione, una contraddizione in termini.
Tutto ciò che sa di autenticità naturale e spontanea deve essere visto con sospetto, vagliato sui parametri dell’etica politicamente corretta e sottoposto al conseguente giudizio di idoneità o inidoneità sociale; il formalismo esteriore dei modi e delle apparenze diventa, così, sostanza della vita.
Le psicologie adattive faranno tutto il resto.
Cosa si contrappone a questo progetto di società sovvertita nei suoi valori essenziali della responsabilità sociale, della continuità con il passato, della libertà di pensiero e d’azione, dell’etica collettiva condivisa e del rispetto della natura umana?
Per quanto si possa ricercare in materia, l’unico argine che si rinviene a questa deriva ideologica, inaugurata e mossa da quella sinistra che ritiene di possedere il monopolio esclusivo dell’idea di civiltà e progresso, è la cultura Cattolica; ossia, esattamente quella su cui, non a caso, si abbattono ormai da decenni gli strali delle politiche di sinistra e dell’intellighenzia morale del fronte progressista.
Un malinteso concetto di modernizzazione della società, a cui si abbeverano anche alcune culture politiche liberali e di centrodestra, inquina la visuale di coloro che sembrano non accorgersi della rivoluzione silenziosa che sta manomettendo l’autenticità dei rapporti sociali, il rapporto tra i sessi, la tenuta etico-morale del nostro futuro, la libertà soggettiva e le nostre stesse identità individuali e sociali.
Non si tratta di negare validità ad alcune conquiste della c.d. "modernità", innegabili e vere; ma di negare questa validità quando essa intende affermare sé stessa mediante la rottura traumatica e rivoluzionaria con il passato - da cui tutti proveniamo e da cui tutti traiamo il nostro senso d’identità - e la sostituzione violenta di un conformismo morale che, bene o male, ha sostenuto e trainato il concetto stesso di civiltà nei secoli, con un neo-conformismo di segno diametralmente opposto, che appare finalizzato a riformulare la dimensione storica dell’esperienza umana in un’eterna, immutabile prigionia del presente da consumarsi il più in fretta possibile e senza troppe domande.
Illuminanti, a questo riguardo, le parole di Papa Benedetto XVI°, il quale dice: "....La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica....." (suggerisco, peraltro, la lettura integrale delle parole del Pontefice, al link "lex naturalis", per un’adeguata comprensione).
Giunto alla fine di questo itinerario concettuale incompleto, approssimato e inevitabilmente sommario, nonostante tutto, si può tentare, quindi, di dare una risposta alle domande iniziali e formulare una definizione della QM nei suoi aspetti propriamente politici.
Il femminismo non ha - e non avrebbe potuto - modificare in modo così profondo il "sentire" generale se non fosse stato all’interno di una prospettiva politica con pretese moralizzatrici (la sinistra progressista) più ampia, i cui obiettivi convergevano tanto profondamente nell’idea globale di una rifondazione generale dei rapporti sociali nei termini detti sinora e nella prospettiva utopica di un mondo reso artificiosamente perfetto dal governo delle coscienze (piuttosto che dal governo delle istituzioni).
Per conseguire questi obiettivi strategici miranti alla formazione di un cittadino narcotizzato sui reali contenuti della rivoluzione culturale in atto, ma fedelmente prono alle nuove parole d’ordine generali, il fronte progressista non doveva fare altro che mistificare la lettura dei processi storici effettivi; demonizzare tutto ciò che rappresentava un "modello di sviluppo" capace di produrre benessere materiale in misura infinitamente superiore a quello mai visto, sinora, nella storia umana; attribuirgli ogni sorta di nefandezza umana ignorandone deliberatamente gli aspetti luminosi, creativi, liberatori e satisfattivi; negare ogni validità e positività al passato ed ai suoi valori portanti ma, soprattutto, negare ogni dignità, valore e riconoscenza al suo principale ed indiscusso protagonista: l’uomo, decaduto nel frasario corrente, in modo assai sintomatico, alla qualifica denigratoria e diminutiva di "maschietto".
Da quanto detto sinora si può far discendere - come considerazione conclusiva - che la QM (questione maschile) come questione politica non può e non potrà mai essere, per definizione, una questione di sinistra.
Essa consiste, per venire alla definizione inizialmente ricercata, nel problema che si pone oggi all’uomo medio (che se ne renda consapevole) di difendersi dall’omologazione culturale che lo vorrebbe "cambiare" per renderlo più adatto alla realizzazione di un’artificiosa società degli uguali indifferenziati, manipolarne l’intima natura per addomesticarne gli istinti con una sorta di violenta lobotomia culturalmente indotta e renderlo astrattamente funzionale ad una realtà femminilizzata in ogni suo aspetto; realtà che è espressione di un moralismo utopico di condanna del passato e di tutto ciò che in esso è contenuto al solo scopo del suo esatto ribaltamento.
Dal maschile al femminile, senza ritorno.
In questa presa di coscienza dei rischi che lo minacciano in modo così profondo, tanto da pregiudicarne la libertà di pensiero, di azione e di affermazione sociale, l’uomo medio sa che troverà un solo alleato al suo fianco, volente o nolente; quella cultura morale che preserva la dimensione naturale dell’individuo, dei rapporti umani e della vita - elevandola a valore sacro ed intangibile - oltre ad essere l’unica fonte legittima di una visione universale dell’uomo, offerta dalle religioni e dal Cattolicesimo in modo particolare.
L’alleanza con questa prospettiva di senso filosofico ed esistenziale non è, peraltro, strumentale alla propria semplice salvaguardia soggettiva ma alla stessa prospettiva di senso generale che ha unito sino a ieri gli uomini alle donne, facendone due parti di un tutto necessario, fonte a volte di felicità ed infelicità personali, ma comunque sempre fecondo perché dato e consacrato per la perpetuazione della vita.
Questa è la questione maschile che si tratta in questo sito.
Ma cosa si intende per questione maschile?
Darne una definizione sintetica potrebbe rivelarsi semplificatorio e riduttivo, trattandosi di una fenomenologia che investe sfere molto ampie della vita associata e di quella individuale.
Tuttavia, una definizione si rende quanto mai opportuna e va tentata.
Limitarsi ad identificare la QM nel fenomeno della misandria - ossia dell’ostilità pregiudiziale verso il "maschio" - che si registra sul piano dei comportamenti diffusi, nella prassi giudiziaria e nei conseguenti effetti sociali non consentirebbe di cogliere le cause profonde del problema; la misandria è, in altre parole, la punta di un iceberg rispetto al quale l’interrogativo che rimane irrisolto è : "cosa la rende possibile nei modelli culturali del mondo occidentale che, per statuto, nega legittimità ad ogni altra forma di discriminazione ideologica, tranne questa?".
Indubbiamente, sul piano politico-filosofico il femminismo, con la sua critica al "dominio maschile" e con la sua interpretazione della storia come storia di oppressione delle donne, ha posto le basi per un antagonismo femminile materialmente "vissuto" che ha assunto, rapidamente, il senso di una critica tout court verso il "maschio", il suo sistema simbolico ed il suo valore umano.
Eppure questo dato irrefutabile ancora non spiega come mai un movimento sostanzialmente di nicchia - sono davvero poche le donne che si dichiarano apertamente femministe e molte, invece, quelle che ne condannano gli eccessi - sia riuscito a fare del proprio messaggio un fattore di condizionamento delle culture politiche, tanto da essere stato assimilato nel "sentire comune" in modo pressoché acritico.
Forse, allora, le radici del problema sono ancora più in profondità.
Ad una riflessione più generale, le concezioni politiche che si sono andate affermando in questi primi anni del terzo millennio hanno continuato gradualmente a spostare il fulcro della propria attenzione, l’oggetto del contendere politico generale, dall’economia all’etica, dal pubblico al privato, dalla politics alla policy, dalla comunità all’individuo, proseguendo una tendenza già avviata, negli anni del c.d. "riflusso", dall’individualismo esasperato dell’io radicale e dai valori edonistici della c.d. "società debole".
I temi della "biopolitica", le questioni di coscienza, la critica all’anomia morale della finanza e le contrapposizioni via via più aspre tra fede e laicismo - per non parlare di quegli atteggiamenti di militanza imbevuti sempre più spesso di indignazioni etiche, piuttosto che di rivendicazioni sociali definite - ricorrono con sempre maggiore frequenza nei dibattiti pubblici mentre, contestualmente, sempre minore attenzione viene posta ai paradigmi classici dell’economicismo materialista con i quali, da Marx in avanti, si è solitamente descritta l’evoluzione della società; la globalizzazione avrebbe, in effetti, reso anacronistica la tradizionale critica al modello di sviluppo economico, aprendo la strada ad altre forme di aspirazioni soggettive e di conflittualità sociali.
La politica, insomma, starebbe cambiando i propri obiettivi.
Riducendo al massimo la complessità delle filosofie politiche da cui questi fenomeni traggono forza e movimento, si potrebbe dire che le ormai antiche contrapposizioni tra detentori di privilegi materiali ed esclusi hanno ceduto il passo a nuove forme di contrapposizione, di grande coinvolgimento emotivo per l’opinione pubblica, nelle quali la posta in gioco non è più - o non tanto - il potere materiale, quanto, piuttosto, il potere morale.
Ma è veramente così?
Possiamo abbozzare una risposta se tentiamo di risalire al momento in cui alcune forze ideologiche - quelle miranti alla realizzazione della "società perfetta" - hanno modificato il proprio ruolo trasformandolo da progetto di governo della società a progetto di governo delle coscienze individuali.
L’impegno politico diventerà, in questa luce, affermazione di valori universalistici - calati dall’alto - a cui il popolo deve essere "educato".
Sino ad un dato momento storico, che possiamo riconoscere nella rivoluzione culturale del ’68, quantomeno nel nostro Paese, la competenza in materia morale - la definizione condivisa del bene e del male - è affidata alla dimensione religiosa ed, in essa, il governo delle coscienze è demandato alla visione escatologica della Chiesa.
Più delle sanzioni della giustizia umana (e parallelamente ad esse, che ne mutuano il senso nell’ottica sociale) è il senso di colpa lo strumento psicologico di questa amministrazione delle coscienze che, tuttavia, non mira alla realizzazione dell’individuo perfetto, né della società perfetta, ma solo a dettare le regole della vita "grata a Dio" in prospettiva ultraterrena; modelli etici che, peraltro, anche sul piano sociale consentono una convivenza pacifica ed ordinata, benché in qualche misura repressa sul piano istintuale.
Inoltre, a differenza di quanto avveniva per il calvinismo (come ci ha insegnato M. Weber), i comportamenti "in odore di santità" sono solo un focus a cui tendere per il singolo cattolico, in quanto neanche la Chiesa ignora o nega le umane imperfezioni, tanto da prevedere il perdono della "Confessione" o, addirittura, il semplice pentimento, anche dell’ultimo istante di vita, per la redenzione di un’intera vita di peccati (o di incapacità operosa).
Con il sessantotto la critica alla moralità tradizionale di origine religiosa ed a tutto ciò che ad essa si ricollega sul piano sociale (famiglia, ruoli, merito, gerarchie) diventa occasione per una rifondazione dell’etica su basi antagonistiche.
Come ogni movimento rivoluzionario, anche il ’68 mirava ad una trasformazione radicale dei rapporti sociali, nel senso di un ribaltamento puro e semplice del passato e dell’ordine sociale, ma la sua specificità storica sta, in misura particolare, nel fatto che esso trasferisce la rivoluzione dalla politica alla cultura, negando a quest’ultima ogni forma di legittimità in quanto cultura delle classi dominanti.
Tutto ciò che è espressione delle culture tradizionali deve essere rovesciato nel suo contrario; emancipazione, la parola chiave del nuovo paradigma antropologico, significa, innanzitutto, negazione di qualunque validità al sistema di valori allora vigente, una "grande marcia" utopica verso l’emancipazione dal passato, dalla religione, dai pregiudizi, dal consumismo.
Come è stato già scritto...."Il ’68 contrappone in un modo totale la trasparenza del sociale al feticismo dell’economico, del politico e del legale. Il profitto, la ragion di Stato e l’apparato della legge subordinano a sé ogni istanza che nasce dalla comunità, dalla comunicazione, dall’autocoscienza. Il centro del sociale è la critica delle ideologie che svela l’inganno con cui l’economia, la politica e la legalità vogliono imporsi come «verità oggettive, impersonali, necessarie».
L’esempio più evidente dell’estremismo con cui il ‘68 oppone la trasparenza del sociale a tutte le forme del feticismo è il concetto sessantottesco di malattia mentale incarnato nella legge 180. Il malato di mente, l’operaio, la donna, devono «diventare protagonisti della trasformazione sociale e quindi della loro liberazione». Ogni condizione umana distorta è costruita in un processo distorto di comunicazione sociale camuffato come «naturale». Ogni condizione umana è perciò modificabile attraverso un rifiuto di farsi imporre un’identità distorta da una comunicazione distorta. Curare vuol dire far riconoscere al malato il legame tra la sua condizione di sofferenza e la distorsione della comunicazione, l’opacità sociale di cui è vittima. Solo una «rivoluzione sociale» può liberare il malato dai suoi sintomi.
Gianini Belotti mostrava nel libro "Dalla parte delle bambine" come anche la differenza maschio-femmina è un prodotto dei modelli distorti di comunicazione sociale interiorizzati e istituzionalizzati in tutta la società. La rivoluzione sociale consiste nello svelare i modelli distorti di apprendimento sociale dietro ogni diseguaglianza tra gli uomini. Così finalmente «si potrà spezzare la catena di condizionamenti che si trasmette pressoché immutata da una generazione all’altra».
La «Grande marcia» verso il predominio del sociale su tutti gli altri aspetti della vita è il kitsch della sinistra."
Rivisitando la storia come storia di oppressione simbolica, la critica al modello di sviluppo - da cui siamo partiti - acquisisce rapidamente il senso di una critica radicale al modello di trasmissione della cultura, di apprendimento e di elaborazione del pensiero.
L’identità personale non è più, secondo questo mutamento di prospettiva, un dato naturale che scaturisce spontaneamente dal corredo biologico, da quello genetico e dalle diversità in essi radicate; l’individuo diventa una costruzione socio-culturale nella quale i condizionamenti a cui esso è sottoposto dall’educazione possono essere modificati in modo consapevole da altri condizionamenti di segno differente e contrario.
Un ruolo tutt’altro che secondario per l’affermarsi di questa prospettiva è stato svolto, inoltre, dal rapido sviluppo delle discipline psicologiche sin dagli inizi del ’900.
L’idea che la psiche fosse un terreno di indagine scientifica come un altro, passibile di interventi e tecniche di manipolazione tali da indurre a “cambiamenti” delle condizioni soggettive, rappresentava il fulcro concettuale di discipline sperimentali come il comportamentismo (Watson, Skinner) e il successivo cognitivismo, mentre anche la psicologia sociale avviava ricerce specifiche sul “conformismo” e sulle strategie di promozione del consenso sociale.
La psicologia individuale e collettiva diviene così, il laboratorio nel quale sperimentare nuove forme di controllo sociale, in sostituzione di quelle tradizionalmente legate ad ideali di moralità religiosa.
La medicalizzazione del disagio personale e del dissenso politico (che troverà nelle repressioni psichiatriche del comunismo sovietico la sua espressione più conclamata) si fonda sulla concezione della malleabilità della psiche umana; sul postulato di un rapporto tra individuo e società nel quale l’uno dipende, si forma e si definisce, in funzione dei condizionamenti della seconda.
Non è più l’individuo a fare la società – ed a trasformarla politicamente in funzione dei propri bisogni - ma è la società a fare l’individuo ed a trasformarlo, se del caso, in funzione delle concezioni dominanti e delle esigenze di ingegneria sociale del momento storico.
Il positivismo scientifico in questi settori della conoscenza, unito all’analogo entusiastico spirito positivistico riguardo alle possibilità umane di controllare la natura per renderla conforme ai propri bisogni, induce alla negazione di una “natura umana” definita e stabile, quale quella che era stata teorizzata dal contrattualismo giusnaturalistico di Hobbes (bellum omnium contra omnes), di Locke e, in modi diversi, da J.J. Rousseau.
Nonostante le molteplici e importanti differenze di pensiero esistenti tra questi autori, è ad essi che dobbiamo il perfezionamento di quella concezione contrattualistica che postula la preesistenza di una natura umana alla società e, quindi, alla cultura cui essa dà vita e di una lex naturalis che precede e su cui si fonda ogni ordinamento giuridico che non voglia essere semplice e neutro arbitrato dei molteplici motivi di dissidio sociale.
Natura preesiste quindi a cultura ed è la seconda a dipendere dalla prima per la sua formazione, per la sua possibilità di vita e per i modi del suo stesso evolversi.
Per tirare qualche somma da questo prolungato, seppur sommario ed incompleto, excursus alla ricerca delle nostre risposte di senso, si può dire che esistono, quindi, al fondo di tutte le infinite implicazioni possibili di merito specifico, due diverse e sostanziali visioni della società e della vita che, dal sessantotto in avanti, si fronteggiano sul proscenio di quel teatro della cultura che sta diventando il luogo prevalente del conflitto politico.
Da un lato il c.d. fronte progressista, che annovera tra le proprie fila il positivismo giuridico, lo scientismo, il laicismo, l’egualitarismo utopico, il solidarismo, il culturalismo, il femminismo, l’ambientalismo e il libertarismo radicale.
Paradigma costitutivo di questo fronte ideologico popolato di "ismi" di ogni sorta è che l’individuo e la sua identità personale possono, anzi, devono essere costruiti con operazioni di ingegneria sociale decise dall’alto; stuoli di specialisti di ognuna di queste discipline si affannano nell’elaborazione degli strumenti educativi o rieducativi adatti ad uniformare l’individuo ad un ideale astratto di civismo pubblico e privato.
Tramontata, per condanna della storia, la possibilità di rivoluzionare la società attraverso il sovvertimento dei rapporti di produzione economica, la strada del cambiamento utopico passa, ora, attraverso il costante tentativo di una ri-evangelizzazione laica e progressista delle coscienze, che sostituisca la prospettiva di senso religiosa e morale su cui l’esistente è stato fondato e che ponga le premesse per un nuovo universalismo su basi politiche.
Così come la natura può essere forzata con la modificazione genetica del mais, con la clonazione delle pecore e con la fecondazione assistita, anche la natura umana sembra potersi modificare ad libitum, secondo un programma politico che ha per obiettivo il più banale e prevedibile controllo sociale di sempre: un nuovo conformismo ottenuto con la propaganda ideologica di insopportabili ingiustizie sociali, di catastrofi imminenti cui porre riparo, con la medicalizzazione educativa dei rapporti umani.
Una nuova antropologia umana elaborata a tavolino, in sintesi, cui spetta solo uniformarsi, in base ad un universalismo politicamente costruito che costituisce, per definizione, una contraddizione in termini.
Tutto ciò che sa di autenticità naturale e spontanea deve essere visto con sospetto, vagliato sui parametri dell’etica politicamente corretta e sottoposto al conseguente giudizio di idoneità o inidoneità sociale; il formalismo esteriore dei modi e delle apparenze diventa, così, sostanza della vita.
Le psicologie adattive faranno tutto il resto.
Cosa si contrappone a questo progetto di società sovvertita nei suoi valori essenziali della responsabilità sociale, della continuità con il passato, della libertà di pensiero e d’azione, dell’etica collettiva condivisa e del rispetto della natura umana?
Per quanto si possa ricercare in materia, l’unico argine che si rinviene a questa deriva ideologica, inaugurata e mossa da quella sinistra che ritiene di possedere il monopolio esclusivo dell’idea di civiltà e progresso, è la cultura Cattolica; ossia, esattamente quella su cui, non a caso, si abbattono ormai da decenni gli strali delle politiche di sinistra e dell’intellighenzia morale del fronte progressista.
Un malinteso concetto di modernizzazione della società, a cui si abbeverano anche alcune culture politiche liberali e di centrodestra, inquina la visuale di coloro che sembrano non accorgersi della rivoluzione silenziosa che sta manomettendo l’autenticità dei rapporti sociali, il rapporto tra i sessi, la tenuta etico-morale del nostro futuro, la libertà soggettiva e le nostre stesse identità individuali e sociali.
Non si tratta di negare validità ad alcune conquiste della c.d. "modernità", innegabili e vere; ma di negare questa validità quando essa intende affermare sé stessa mediante la rottura traumatica e rivoluzionaria con il passato - da cui tutti proveniamo e da cui tutti traiamo il nostro senso d’identità - e la sostituzione violenta di un conformismo morale che, bene o male, ha sostenuto e trainato il concetto stesso di civiltà nei secoli, con un neo-conformismo di segno diametralmente opposto, che appare finalizzato a riformulare la dimensione storica dell’esperienza umana in un’eterna, immutabile prigionia del presente da consumarsi il più in fretta possibile e senza troppe domande.
Illuminanti, a questo riguardo, le parole di Papa Benedetto XVI°, il quale dice: "....La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica....." (suggerisco, peraltro, la lettura integrale delle parole del Pontefice, al link "lex naturalis", per un’adeguata comprensione).
Giunto alla fine di questo itinerario concettuale incompleto, approssimato e inevitabilmente sommario, nonostante tutto, si può tentare, quindi, di dare una risposta alle domande iniziali e formulare una definizione della QM nei suoi aspetti propriamente politici.
Il femminismo non ha - e non avrebbe potuto - modificare in modo così profondo il "sentire" generale se non fosse stato all’interno di una prospettiva politica con pretese moralizzatrici (la sinistra progressista) più ampia, i cui obiettivi convergevano tanto profondamente nell’idea globale di una rifondazione generale dei rapporti sociali nei termini detti sinora e nella prospettiva utopica di un mondo reso artificiosamente perfetto dal governo delle coscienze (piuttosto che dal governo delle istituzioni).
Per conseguire questi obiettivi strategici miranti alla formazione di un cittadino narcotizzato sui reali contenuti della rivoluzione culturale in atto, ma fedelmente prono alle nuove parole d’ordine generali, il fronte progressista non doveva fare altro che mistificare la lettura dei processi storici effettivi; demonizzare tutto ciò che rappresentava un "modello di sviluppo" capace di produrre benessere materiale in misura infinitamente superiore a quello mai visto, sinora, nella storia umana; attribuirgli ogni sorta di nefandezza umana ignorandone deliberatamente gli aspetti luminosi, creativi, liberatori e satisfattivi; negare ogni validità e positività al passato ed ai suoi valori portanti ma, soprattutto, negare ogni dignità, valore e riconoscenza al suo principale ed indiscusso protagonista: l’uomo, decaduto nel frasario corrente, in modo assai sintomatico, alla qualifica denigratoria e diminutiva di "maschietto".
Da quanto detto sinora si può far discendere - come considerazione conclusiva - che la QM (questione maschile) come questione politica non può e non potrà mai essere, per definizione, una questione di sinistra.
Essa consiste, per venire alla definizione inizialmente ricercata, nel problema che si pone oggi all’uomo medio (che se ne renda consapevole) di difendersi dall’omologazione culturale che lo vorrebbe "cambiare" per renderlo più adatto alla realizzazione di un’artificiosa società degli uguali indifferenziati, manipolarne l’intima natura per addomesticarne gli istinti con una sorta di violenta lobotomia culturalmente indotta e renderlo astrattamente funzionale ad una realtà femminilizzata in ogni suo aspetto; realtà che è espressione di un moralismo utopico di condanna del passato e di tutto ciò che in esso è contenuto al solo scopo del suo esatto ribaltamento.
Dal maschile al femminile, senza ritorno.
In questa presa di coscienza dei rischi che lo minacciano in modo così profondo, tanto da pregiudicarne la libertà di pensiero, di azione e di affermazione sociale, l’uomo medio sa che troverà un solo alleato al suo fianco, volente o nolente; quella cultura morale che preserva la dimensione naturale dell’individuo, dei rapporti umani e della vita - elevandola a valore sacro ed intangibile - oltre ad essere l’unica fonte legittima di una visione universale dell’uomo, offerta dalle religioni e dal Cattolicesimo in modo particolare.
L’alleanza con questa prospettiva di senso filosofico ed esistenziale non è, peraltro, strumentale alla propria semplice salvaguardia soggettiva ma alla stessa prospettiva di senso generale che ha unito sino a ieri gli uomini alle donne, facendone due parti di un tutto necessario, fonte a volte di felicità ed infelicità personali, ma comunque sempre fecondo perché dato e consacrato per la perpetuazione della vita.