Le gaie parole




«Basta con la parola omosessuale, è offensiva e discriminatoria».
A lanciare questa nuova crociata terminologica è il britannico “Guardian”, testata di riferimento della sinistra inglese, che si colloca a buon diritto tra i protagonisti attivi e militanti di quella rivoluzione culturale, silenziosa e strisciante, che va ricondotta all'espressione anglofona «politically correct».
Chi più, chi meno, dovremmo sapere tutti cosa sia questa dottrina dell'espressione non offensiva, questo protocollo linguistico in salsa sociologica, di come sia stata elaborata negli anni ottanta dai think tank radical-progressisti delle università americane, a tutela delle cosiddette "minoranze discriminate", per poi propagarsi come un virus inarrestabile di asserito progressismo in tutto il mondo occidentale.
Chi più, chi meno, dovremmo quindi sapere tutti anche il motivo per il quale i termini «frocio» o «checca», ad esempio, sono spariti dal frasario corrente; anche se non sono scomparsi dal linguaggio ufficiale, dove non sono mai stati veramente, o da quello comune, dove ogni forma di puritanesimo ha sempre - e spesso vanamente - cercato di mettere le mani a scopo di indottrinamento.
Sono piuttosto scomparsi da quello comico, dall'ironia, dalla satira, dai lazzi letterari e dalle parodie da palcoscenico; insomma, da quel territorio dell'irriverenza divertita con la quale gli esseri umani (prevalentemente, se non esclusivamente, di sesso maschile) da sempre guardano a chi si prende troppo sul serio, a cominciare proprio dal potere; quel certo tipo di potere asfissiante che, guarda caso, vorrebbe imporre modi di dire e modi di fare nel tentativo di educare il cittadino al proprio volere.
Ma non basta più.
Non è sufficiente abolire l'umorismo e la presa in giro dell’omosessuale, mentre continua senza scandalo per il ciccione, il calvo, il pigro, l'inetto o il vanesio; ma non lo si deve neanche più chiamare in questo modo, in quanto sarebbe un modo “offensivo e discriminatorio” e perciò utilizzare, al posto di quella orrenda parola, la locuzione «persona gay».
E la cosa va estesa anche al linguaggio ufficiale, quello degli atti pubblici, tanto che il governo scozzese – quello che aveva già abolito i termini papà e mamma dagli atti sanitari e scolasticiha diramato una specifica direttiva finalizzata a rendere operante questa censura in tutte le sue articolazioni amministrative.
Dolce e Gabbana, massimi, addolorati esponenti, insieme a Luxuria e Grillini, di una categoria palesemente discriminata, ringraziano commossi.
Blasfemia
Sin qui i fatti.

A torto molti pensano che la nostra sia un'epoca di dissacrazioni definitive, di tramonto del sacro, di libertà laiche rese fluide dall'assenza di confini definiti; un'epoca senza valori, insomma, come si dice ormai da tanto.
Io sostengo, da tempo, che non è vero.
Se di una certa categoria sociale non si può ridere - in quanto è vietato riderne per deliberazione di qualcuno - e va denominata secondo criteri imposti da un neomoralismo invasivo, bacchettone ed occhiuto, capace di trasformarsi persino in dettato di legge, allora quella certa categoria sociale non è rispettata ma sacralizzata.
Circondata da un'aura di intangibilità assoluta come una volta ci dicevano dovesse essere per i Santi, su cui non era ammesso ridere o scherzare.
Un po' come succede, ancora, per «il corpo delle donne», che non dovrebbe essere visto nella sua banale corporeità ma nella sua intima essenza filosofica, anche quando circola senza mutande o con le tette di fuori.
Non si deve guardarla così ma cosà, dicono e impongono i politicamente corretti.
Scemenze intellettualistiche purtuttavia votate al rispetto della persona, direte voi (ammesso e non concesso che una che gira senza mutande o con le tette di fuori sia una persona rispettosa dell'altrui sensibilità).
Sacralizzazione atea di ciò che è femminile, dico invece io; tanto che afferisca al corpo di una donna quanto a quello effeminato di un omosessuale (e scusate la scorrettezza politica ma non posso, non voglio, farci nulla...).
Altrettanto a torto molti pensano che la censura ideologica del politically correct sia, in buona sostanza, una cultura del rispetto; un po' come il galateo è stato, a suo tempo, per le cattive maniere a tavola.
E neanche questo è minimamente vero.
Una vera cultura del rispetto non seleziona, sulla base di criteri politici o sociologici, le categorie e i soggetti a cui questa speciale tutela è destinata; lo afferma come principio valido per tutti e basta, magari lasciando che le persone continuino anche a ridere di quello che gli pare.
Invece non è così.
Gli stessi, identici sacerdoti del politically correct - quelli per i quali il termine frocio è una bestemmia e omosessuale una discriminazione intollerabile - si sono entusiasticamente compiaciuti alla visione di quelle recenti rappresentazioni teatrali (chiamiamole così) il cui tema conduttore era infangare il volto di Cristo con gli escrementi o immergere il Crocifisso in un recipiente pieno di piscio, nella platealità di palcoscenici allestiti appositamente allo scopo.
«...opere di profonda bellezza e spiritualità» sono state definite dall'assessore alla cultura di Milano, giunta Pisapia, versante sinistro, credo politicamente corretto, sponsor del progetto "culturale".
E la sensibilità dei cattolici?
Chissenefrega, mica sono categorie discriminate quelle.

Davvero vogliono farci credere che il rispetto sia l'obiettivo?
Che almeno la piantino di dire scemenze su ciò che è bello, è giusto, è corretto, è rispettoso.
Come diceva Henry Ford, puoi raccontare balle a qualcuno per qualche tempo, a molti per un altro po' ma non a tutti per sempre.
La verità - la mia verità, almeno - è che ad un certo tipo di sacralità vuole subentrarne un'altra, che certe dottrine vogliono prendere il posto di altre dottrine, che al Dio dei Padri vuole subentrare il dio delle madri (con o senza mestruazioni).
Non ci vuole molto a capirlo.
Persino gli eroi della gaiezza potrebbero arrivarci.