mercoledì 23 marzo 2016

CHE C’E’ DI SBAGLIATO





Se mai un argomento ha presentato difficoltà veramente grandi per poter essere discusso senza patemi d’animo o timori reverenziali, quello che stiamo per affrontare lo supera davvero di diverse lunghezze.
Tuttavia, nonostante la ripidissima e impervia salita che vogliamo intraprendere, vale la pena affrontare il rischio di qualche scivolone, come si spera di dimostrare.
La domanda cruciale è presto detta: che c’è di sbagliato nel pensare che una parte del mondo possa vivere delle elemosine dell’altra parte del mondo?
Diamo qualche spiegazione.
Esci di casa e sei braccato da stranieri di ogni etnia e colore che ti chiedono soldi; rientri in casa e accendi la tivvù per essere inseguito da innumerevoli e lacrimevoli pubblicità che ti implorano di mandare 9 euro al mese per l’affido a distanza, per le malattie rare, per gli aiuti alimentari transnazionali e addirittura per i bambini poveri italiani della porta accanto; segui una partita e ti si chiede di mandare un sms per il cancro, per la violenza sulle donne (che c’entra…?), per la sclerosi amiotrofica eccetera (e per ogni gara di campionato o di coppa c’è una campagna differente); vai al supermercato e trovi l’iniziativa del “banco alimentare” per fare la spesa agli indigenti; vai in farmacia e trovi il “banco farmaceutico” allo stesso modo; per finire, a sera apri la posta elettronica e sei inondato di richieste di aiuto, soldi e sostegno provenienti dai quattro angoli del web.
A questo punto vai a dormire con un peso sull'anima in quanto, inevitabilmente, non hai potuto (e neanche voluto, in alcuni casi) soddisfare tutte le richieste urgenti di un’umanità rappresentata perennemente in bilico sul ciglio di un burrone (ma anche a favore di telecamera, in quei casi).
Con un simile peso nel cuore non stai più neanche a chiederti quante risorse già mandi con le imposte e le gabelle e i balzelli vari per la sanità, le assistenze e le azioni umanitarie che i tuoi governanti hanno già deciso di mettere in campo in tuo nome e per tuo conto. Dai per scontato che tu esisti per mandare i tuoi soldi in aiuto a qualcuno, sei tirato per i capelli nel modello filantropico che domina il bel civismo contemporaneo e non stai neanche più a chiederti se sia giusto, sbagliato, o un po’ l’uno e un po’ l’altro.
Qui, invece, abbiamo deciso di mettere l’interrogativo all'ordine del giorno.
Chiariamo quindi subito una cosa fondamentale: un buon cristiano è tenuto alla “Carità” e ci mancherebbe altro. Si tratta però di capire se sia anche tenuto a foraggiare l’industria della carità che si è sviluppata in misura abnorme e che ormai coinvolge un oceano incontrollato di ONG, ONLUS, enti benefici, centri ricerca e fondazioni varie che dentro questa filantropia diffusa e semi-obbligatoria (pena l’iscrizione nelle liste dei mostri insensibili) fanno il loro lavoro (nel senso che ci campano).
Il secondo aspetto che meriterebbe un approfondimento è che, mentre ci asciughiamo le lacrime per tanti fratelli sofferenti che meritano tutto il nostro rispetto e comprensione, veniamo anche a sapere che non sono mai stati raggiunti, storicamente, risultati tanto positivi nella lotta alla fame nel mondo, che interi continenti come quello asiatico viaggiano verso standard di benessere di tipo americano, che i fiumi di denaro inviati, filantropicamente, in Africa servono a finanziare signori e signorini della guerra, i quali della miseria della loro gente se ne strafregano bellamente mentre noi stiamo qui a strapparci i capelli in modo tanto caritatevole, equo e solidale, appunto.
Il terzo aspetto ragguardevole è che la Storia – non l’ideologia – dimostra in modo inequivocabile che la miseria (quella materiale, quella morale è tutt'altra questione, sia chiaro) è stata sconfitta dall'economia di mercato, quella che secondo certe dottrine tuttora farneticanti sarebbe alla base delle disuguaglianze planetarie ma che, in realtà, sta a tutt'oggi sollevando e affrancando dal bisogno paesi tradizionalmente poveri come la Cina, il Brasile, l’India eccetera. Non staremo a disturbare Friederich Von Hayek o la vecchia scuola di Chicago, a questo proposito, andatevele a studiare le cose prima di farneticare.
Quindi che c’è di sbagliato in tanta elemosina caritatevole che sprizza - come soluzione ai mali - dai media, dai convegni, dalle opinioni diffuse e dal modello stilizzato del buon cittadino che ci viene propinato in ogni forma, luogo e contesto?
Innanzitutto comincerei con l’osservare che qualunque principio – compresa la solidarietà – venga assolutizzato finisce per divorare gli altri principi esistenti – il principio di ragionevolezza, ad esempio – creando comportamenti afflitti da mostruosità sbilenche d’interpretazione dei fatti e dalla totale mancanza di equilibrio. Già questo basterebbe a ricollocare la solidarietà all'interno di limiti più appropriati, accanto alla libertà, al principio di realtà ed a quello di ragionevolezza, appunto.
Ma c’è anche un altro principio, che è quello del merito, che non viene preso in seria considerazione a questi riguardi.
Perché nessuno si chiede come mai il bambino africano è povero e diventerà cieco, per mancanza di cure, mentre è circondato da adulti che dovrebbero prendersene cura? Perché nessuno si chiede come mai un continente, come quello africano, ricchissimo di materie prime – dal petrolio all’oro ai diamanti al platino ai metalli pesanti eccetera – condanna le sue popolazioni alla miseria ed al sottosviluppo? Non è forse finita l’epoca coloniale e non si autodeterminano i popoli africani? Lo fanno bene, lo fanno male?
Domandine semplici semplici ma che nessuno pone – probabilmente per il timore di essere preso per razzista, che è uno dei modi più rapidi, e caritativamente repressivi, di tacitare interrogativi scomodi – preferendo il balsamo della coscienza dell’elemosina equa e solidale. Sicché i poveri restano poveri, tanto saranno assistiti da qualche buon occidentale pietoso e dall'anima bella linda da mettere in piazza, e le cose restano come sono sempre state.
Gran bella soluzione.
Una soluzione che ci porta direttamente al nodo gordiano dell’intera questione: la dissociazione tra sentimento e ragione o, meglio, tra sentimentalismo e razionalità (magari ancora meglio, tra principio femminile e principio maschile).
E non c’è bisogno di troppe spiegazioni contorte.
Basti pensare che stamattina, all'indomani degli attentati di Bruxelles, la reazione della Mogherini davanti alle telecamere è stata il pianto commosso; quella di Saviano, su Facebook, è stata - “il terrorismo si batte con l’integrazione”.
Ecco, forse il modo di affrontare le cose solidaristico ad oltranza, caritatevole senza prospettive, sentimentale senza razionalità – un modo devirilizzato e castrante, si potrebbe e dovrebbe dire – non porta a nessuna soluzione vera ma solo a tanta, tanta, tanta elemosina.
Continua: "CHE C’E’ DI SBAGLIATO"
lunedì 11 gennaio 2016

Essere o apparire




Un luogo comune piuttosto diffuso sostiene che un’immagine vale più di mille parole.
In linea generale tutti ne abbiamo sperimentato il significato, prima o poi nella vita, e saremmo portati a confermarlo senza particolari problemi, soprattutto in un’epoca tanto narcisistica come la nostra da fare dell’immagine e dell’apparenza esteriore i valori fondativi di quella parodia della civiltà che è diventato il mondo occidentale.
Tuttavia ci sono immagini e immagini.
Ci sono immagini che “spiegano” e definiscono una situazione, uno stato d’animo, un’impressione o anche un imperativo morale molto più di un discorso ben articolato, certo. Ma ci sono anche immagini che, al contrario, eludono ogni spiegazione razionale lasciandoci nella più totale incertezza sulla reazione da prendere: uno sbotto di fragorose risate oppure senso di rigetto? un pietoso e penoso compatimento oppure una disincantata e indifferente alzata di spalle? una rassegnata invocazione dei bei tempi andati oppure lo sguardo luminoso levato verso il sol dell’avvenire?
Ci sono dunque immagini ed espressioni dell’apparire che ci aiutano a cogliere il messaggio implicito in esse contenuto, veicolandolo con quell’immediatezza che sollecita senza altre mediazioni il nostro intuito e, dall’altro lato, immagini che ci appaiono istintivamente aliene, bisognose di centomila parole di spiegazione per poter essere incasellate in un orizzonte di senso compiuto.
Quest’ultimo sembra essere, almeno al primo impatto, il caso delle immagini che qui vengono postate nella forma “relata refero”, per così dire, in quanto documentano un fenomeno di cui è difficile scorgere le dimensioni reali; pressoché assente nella vita quotidiana delle persone comuni ma pompato a più non posso dai media mainstream, espressione dei “poteri forti” in auge, come tendenza del futuro.  
Si tratta – come ognuno potrà gustare per proprio conto – di immagini maschili “ibridate”, uomini o presunti tali che indossano collant, che mettono tacchi alti, che ancheggiano su passerelle di moda con il baby-doll e la guepière, uomini che, insomma, scimmiottano il modo d’essere e d’apparire femminile. Tutte immagini che da tempo fanno il giro del web e delle riviste di moda sollevando sconcerto, incredulità, sarcasmo, divertimento o addirittura compiaciuto consenso (chissà perché) ma che quasi mai – a quanto se ne può sapere – suscitano riflessioni o tentativi di discernimento e spiegazione.
Di certo ciò non avviene sulla stampa, cartacea o elettronica, dove il fenomeno viene descritto puramente e semplicemente come tendenza della moda o come settore in espansione ("La nuova idea miliardaria del comparto intimo è il collant per uomo" si legge ad una semplice ricerca) ma dove le implicazioni in termini culturali, sociali, antropologici e persino psicologici – scansati per un momento gli sterili aspetti economicistici - sono sistematicamente ignorati o lasciati all'improvvisazione pressapochista e caricaturale dei social.
Si legge infatti su Panorama.it che “…in Inghilterra e America dove da tempo spopolano, i brand fanno a gara per introdurre la linea di collant per maschi. La catena UK Tights, lo scorso anno, ha dichiarato che il 40% dei guadagni derivano proprio dai collant per uomo. La prima azienda ad ideare e ad investire in un indumento del genere è stata l'americana G. Lieberman & Sons, che ha pensato ad una tecnologia specifica per la sudorazione maschile. Oggi però sono sempre di più i brand che producono collant da uomo, come Wolford, Gerbe, Emilio Cavallini, Falke e ora anche Gerbe.”
Al di là della verosimiglianza di certe proiezioni (sfido chiunque a dimostrare che frotte di uomini sono soliti indossare collant, in giro non se ne vedono, almeno da noi) nulla viene detto sull'assurdità di un comportamento che non appare certo dettato da esigenze di comodità, di praticità o di buon gusto ma che, all'opposto, tradisce una crescente difficoltà ad impersonare l’identità maschile in modo naturale e conseguente, quasi che questa debba essere emendata, rivista e corretta in conformità di certi valori dominanti, politici prima ancora che culturali. E che si associa e si integra con l’altrettanto diffusa ostilità della cultura mainstream e della moralità di massa a considerare la virilità un bene umano da accogliere e tutelare.

A dimostrazione del fatto che le parole servono almeno quanto le immagini, il perché di questa generale correzione politico-antropologica in corso ce lo ha spiegato molto bene la poetessa Sylvia Plath con il suo celebre «Ogni donna ama un fascista», espressione sintetica con cui la virilità è automaticamente posizionata sul lato sbagliato della storia, perché se sei un uomo e senti di esserlo così come ti viene – usando determinazione, polso fermo ed anche quel tanto di aggressività che così spesso serve nella vita, non escluso nel sesso, come vorrebbe la poetessa - in fondo (ma neanche troppo) vuol dire che sei un reazionario, un autoritario, un violento, un fascista insomma, da scansare e condannare coram populo.
Ecco che allora per riposizionarsi sul lato politicamente corretto della scena sociale occorre sembrare di essere qualcosa di diverso da sé stessi, occorre rassicurare di avere capito la lezione, di essere indirizzati verso quella femminilizzazione che è garanzia di antifascismo, democraticità e pacifismo.
Occorre apparire, insomma, piuttosto che essere, se si vuole essere ammessi nel consorzio delle persone politicamente orientate al bello e al bene, secondo una vulgata perbenista tanto solidificatasi nella psicologia collettiva quanto poco ragionata nelle sue assurde implicazioni logiche.
“Donna è bello” – il famoso slogan femminista degli anni passati - è stato specularmente completato da “uomo è brutto”, a pensarci bene, ed ecco perché vanno di moda i collant per uomo o si vedono ancheggiare in maniera comica distinti signorini che mirano a liberarsi della loro virilità.
Ma quando per essere socialmente accettati si sente il bisogno di tradire sé stessi, di camuffarsi e di sentire il proprio sesso biologico come una tara di cui liberarsi, non bisogna essere degli psichiatri per comprendere che il disturbo è più profondo e drammatico di quanto si voglia ammettere. E che la rappresentazione esteriore di una maschera che si traduce in mascherata è penosa e imbarazzante, prima ancora di essere grottesca.
Sì è vero, un’immagine vale più di mille parole e queste immagini ci dicono cose folli.
Ma solo in una società malata che ha seppellito l’autenticità sotto le rappresentazioni ideologiche, il buon senso sotto al piagnisteo, l’essere sotto l’apparire.
Continua: "Essere o apparire"
lunedì 19 ottobre 2015

E' ora di tornare a combattere





Sono passati oltre due anni da quell'ormai lontano 8 marzo 2013, quando da questo blog sono state alzate le mani con una declaratoria di sconfitta senza speranza.
Due anni e mezzo non sono pochi, è vero, eppure se ritorniamo ai temi dei momenti che hanno preceduto quella resa senza prospettive, sembra trascorsa un’era geologica.

Da allora tutte le questioni che riassumono la cultura antimaschile vigente da decenni e che rappresentano l'oggetto d'attenzione di questo sito hanno subito, in questo semplice intervallo di tempo, un’accelerazione esponenziale, anche per effetto delle nuove maggioranze di governo intervenute e delle loro agende politiche in via di realizzazione.
Teoria del genere (o gender) dilagante, promozione statale e mediatica dell’omosessualità travestita da contrasto al bullismo ed alla cosiddetta violenza di genere, provvedimenti finalizzati a “rieducare” le masse in senso anti-omofobico o, per meglio dire, ad introdurre nell'ordinamento il reato d’opinione; sono questi solo alcuni dei passaggi che hanno reso nel frattempo quasi obsoleti gli allarmi delle coscienze libere per tematiche altrettanto inique ed illiberali quali le quote rosa, i diritti negati dei padri separati, gli ormai innumerevoli privilegi femminili in campo giuridico e la colpevolizzazione senza quartiere della maschilità, intesa come identità antropologica da emendare e trasformare nel suo opposto.
Tutte istanze che, sino ad allora, dominavano la scena.

Quell'ormai lontana pretesa di controllo della natura umana attraverso provvedimenti settoriali, specifici e circoscritti posta in essere dal mondo che ama definirsi “progressista” – senza spiegare che  intende promuovere il progresso di alcune a danno di altri - ha ceduto il passo ad una pretesa di controllo totalizzante sulla società, ottenuta mediante l’egemonia sulla cultura, sul mondo intellettuale, sui media e sugli stessi processi formativi dei giovani che, sin dalla più tenera età, rischiano oggi un indottrinamento solo meno apparente – ma altrettanto profondamente totalitario e violento – di quello che voleva produrre nel novecento “l’uomo nuovo” di destra o di sinistra.
Il livello della propaganda ideologica raggiunge, rispetto a soli due anni fa, vertici impensabili, toccando istituzioni della riproduzione culturale che, dopo essersi guadagnate nel tempo livelli di autorevolezza universalmente riconosciuti, svolgono oggi la sciagurata ed indegna funzione di voce del potere: stampa di regime, televisioni di regime, scuole di regime, università di regime.
La stessa espressione “ricerca della verità” sembra perdere via via gran parte del suo significato, dal momento che “verità di comodo” sono scientificamente e sistematicamente costruite con campagne informative deformate nel senso voluto da chi padroneggia il vapore. Com'è stato nel caso della violenza di genere - una campagna mediatica fondata su dati oscenamente truccati - oggi è l’omofobia l’allarme sociale costruito ad arte sul nulla, al solo scopo di imporre modelli, comportamenti e stili di vita che, nella pretesa di costruire un'artificiosa ed utopica uguaglianza, soffocano in realtà le principali libertà dell’individuo; prime tra queste la libertà di pensiero e di parola.

Ma, a differenza di ciò che avveniva soli due anni fa, c’è anche un altro importante mutamento che nello stesso tempo ha trasformato la situazione: la resistenza al regime si è finalmente attivata, il numero e la consistenza sociale di coloro che non tollerano più il bavaglio imposto dalle élite dominanti si è fatto significativo, l’opposizione agli ingegneri sociali che detengono saldamente il potere ed impongono la loro “correttezza politica” ha preso corpo, forma e voce. Quella sconfitta che l’8 marzo 2013 qui sembrava senza speranza ha ritrovato un inaspettato spiraglio di luce.
La Manif pour tous Italia (oggi Generazione Famiglia), la nascita del movimento di Mario Adinolfi e della testata La Croce, le Sentinelle in Piedi e tutto il fermento che ha prodotto la grandiosa manifestazione nazionale del 20 giugno scorso, a difesa della famiglia naturale, sono i più evidenti e conclamati segnali di un’opposizione crescente e finalmente dichiarata al pensiero unico dominante.
Continua: "E' ora di tornare a combattere"
venerdì 8 marzo 2013

Game over






Scelgo l'8 marzo per dichiarare fallimento.
E' una data simbolica, il giorno giusto per la sconfitta.
Quando tre anni fa cominciai questa piccola, modesta esperienza di "narrazione" ed informazione alternativa alla cultura mainstream, non avevo in mente un obiettivo preciso.
Avvertivo solo con forza, con la consapevolezza che mi accompagna già da molto tempo, di volermi sottrarre ad un maltrattamento culturale e mediatico di cui percepisco la violenza sin da quando ho l'età della ragione, e di volerlo dire pubblicamente.
Sono un uomo, sono nato maschio e quindi faccio parte - così si dice - di quella metà del consorzio umano che assoggetta, sottomette e discrimina l'altra metà; la mio posizione nel mondo sarebbe quella del dominatore; deterrei un potere usurpato e fondato sull'oppressione; sarei intimamente un violento, un molestatore, un «maskio assassino»; il mio tempo sta per finire ed è giusto così perché il mondo sarà sempre più donna.
Sentirsi ripetere queste cose sin da bambino è una cosa che ti condiziona la vita.
E non capisci.
Ti guardi allo specchio e vedi qualcosa di diverso da quello che ti raccontano, che vogliono farti credere, dalle colpe che ti attribuiscono.
Si dirà: «...ma mica ce l'hanno direttamente con te».
Il che è una scemenza senza pari, perché se non ce l'hanno con qualcuno in particolare parlano di colpe collettive e dunque - ammesso e non concesso che le colpe collettive esistano - vuol dire che ce l'hanno proprio con tutti noi, me compreso.
Secondo quella logica storta e sgangherata se dicessi che «i negri puzzano» nessuna persona di colore dovrebbe risentirsi. Invece si risentono, eccome, e giustamente, e come mai?
Vaglielo a spiegare a certi pozzi di scienza che il pregiudizio, anche quando è alimentato dai deboli, sempre pregiudizio rimane.
La sconfitta non sta nelle cose, né nella mancanza personale di reazione.
Ma nella solitudine della tua reazione isolata, nella latitanza di chi dovrebbe averla insieme a te, nell'acquiescenza inerte e passiva dei padri, dei fratelli, degli amici e dei tuoi simili che non ti affiancano nel mettere i limiti che servirebbero, dai quali non avverti sostegno e condivisione.
La sconfitta è in quel sentimento di isolamento e solitudine, rispetto a questi problemi, che anche scrivendo su questo blog è rimasto come l'unica certezza.
Freud sosteneva che uno dei bisogni fondamentali dell'essere umano è il bisogno di protezione e che, anche per questo, non riusciva a pensare ad una figura più importante nella crescita dell'individuo della figura del padre.
Ma oggi il padre è morto, l'hanno ucciso ed hanno condannato ogni solidarietà tra uomini come maschilismo e ritorno al patriarcato.
Una cosa inqualificabile, dicono.
Ora ci sono invece i "fabiofazio", il nuovo prototipo antropologico maschile di marca progressive.
Dicono ancora che durante il festival di Sanremo la Littizzetto lo apostrofasse con espressioni come «sei un cretino!» ottenendone in cambio un mansueto sorrisetto di circostanza, se non addirittura di masochistico e mite compiacimento.
Se qualcuno osasse rivolgersi alla Littizzetto dicendogli «sei una cretina!» il giorno dopo ci sarebbero manifestazioni furenti di piazza contro il maschilismo imperante nella cultura, interrogazioni parlamentari a dozzine, l'offesa sarebbe avvertita collettivamente come mancanza di rispetto alle donne tutte e ci sarebbero mobilitazioni sociali come, di volta in volta, con la Bindi, la grillina del punto G e con altre campionesse di categoria (guardateveli questi link, sono istruttivi).
Invece, dalla nostra parte ci stanno i fabifazi a metraggio, uno uguale all'altro, a cui piace farsi maltrattare dalla compare di palcoscenico o di vita quotidiana e tu non capisci, non riesci davvero a capire, come possa essere così. Senza neanche sapere cosa far seguire a quel «così» a cui potrebbe seguire qualunque aggettivo senza arrivare mai a completare quello che vuoi dire.
Hai voglia a scrivere su un blog quando le condizioni sono, penosamente, queste.
Certo, la battaglia solitaria ha un che di epico, magari oltre che disinteressato e generoso, anche un po' ingenuamente naive, donchisciottesco.
Però ti logora le energie senza portare a nulla, perché non è il tuo cuore che deve andare oltre l'ostacolo ma è il cuore di chi dovrebbe sentirsi come ti senti tu, per ragionevole rispetto di sé stesso,  che non senti battere.
Di questi risultati, dopo tre anni di tentativi, in alcuni momenti anche intensi, devo realisticamente riconoscere che non ne ho ottenuti o, quantomeno, non in maniera significativa.
Ho fatto del mio meglio ma non era abbastanza, evidentemente.
E per quanto dispiaccia non posso fare altro che ammettere la sconfitta.
Quella sconfitta emblematicamente riflessa nella teoria del femminicidio, tanto per dire.
Non so quanti si rendano conto che la teoria del femminicidio ha già vinto, contro ogni evidenza, ma non perché sia vera, fondata, ragionevole; ha vinto semplicemente perché la parola è stata introdotta come un virus nel frasario corrente, la gente la usa senza neanche conoscerne il significato e la propaganda anche senza volerlo.
Il motivo è anche semplice: la gente non ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose, cosa significano e dove portano, ha solo bisogno di credere in qualcosa.
Siamo prigionieri di questa espropriazione dell'universo simbolico che alcuni/e hanno colonizzato per imporre il loro modo di pensare, di sentire, di stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato per tutti.
«L'Italia giusta» recita un recente slogan elettorale; si presuppone un'altra parte di mondo che, se non è conseguentemente sbagliata, è quantomeno ingiusta e perciò deve tacere.
Questa è l'idea malata di democrazia nella quale siamo precipitati come in un pozzo.
Allora tanto vale tacere, lasciare la parola solo ai "giusti", ai fabifazi, ai rivoluzionari da quattro soldi e ai salvatori dell'umanità in servizio permanente effettivo.
Il futuro è donna, continuano a dire.
Lo spazio per la parte maschile si va restringendo di giorno in giorno, ma la gente vuole credere in questa nuova utopia, nella profezia sciagurata di un mondo migliore, anzi perfetto, perché senza uomini.
Inutile affannarsi a farli ragionare.
Si sono già messi tutti in coda.
Game over



P.S. - Colgo l'occasione per salutare e ringraziare pubblicamente tutti coloro - primo tra i quali, Massimiliano - che hanno contribuito alla gestione anche tecnica del blog.
Ad maiora
Continua: "Game over"
mercoledì 13 febbraio 2013

Lo spirito del no







C'è qualcosa nella decisione del Santo Padre di abbandonare il proprio impegno pastorale che mi ha lasciato sgomento.
Con questa decisione Benedetto XVI° si è uniformato allo spirito del tempo, allo Zeitgeist da cui siamo dominati.
Il «no» è lo spirito del nostro tempo.
Non so bene chi - ma sicuramente più di uno - ci ha convinti che i nostri no sono altrettanti strumenti di affermazione positiva di noi stessi.
La libertà dell'individuo, dicono, passa attraverso la negazione, l'indipendenza, lo scioglimento dei vincoli, il rifiuto.
Da piccoli diciamo no alle limitazioni dei genitori sbuffando e frignando, continuiamo a dire no durante l'adolescenza per fingerci più grandi e disinvolti e riprendiamo a dire no nella vita adulta per lasciarci "le mani libere".
Ma il no è soprattutto la denominazione di origine controllata del vero rivoluzionario, dell'idealista maniacale, di chi batte i pugni sul tavolo, di chi spariglia le carte del consiglio d'amministrazione, delle trame oscure e delle assemblee di condominio col medesimo trasporto.
Attraverso un'oculata gestione dei no ci sentiamo ricercati, desiderati e benvoluti, perché i divi e le dive non si concedono facilmente al volgo.
Con i nostri no lasciamo che la gente ci capisca per esclusioni successive e trasferiamo comodamente l'onere di farci capire da noi stessi a loro: vuoi questo? no - quello? no - quell'altro? no - che insondabile mistero la vita!
Si deve dire no alla TAV, al riscaldamento globale, ai mozziconi per terra, alla fame nel mondo, alla pena di morte, alla caccia alle balene e ai SUV, no alla violenza sulle donne, alle diseguaglianze e al cancro, no al razzismo e all'omofobia, no a Marchionne e no alle tasse, no ai sacrifici e no ai tagli, no a tizio a caio e a sempronio; l'elenco è infinito e comprende anche, tra le innumerevoli pieghe della lista aggiornata, persino il no alla misandria e al male-bashing, figuriamoci.
Ma se ci fermiamo un attimo a chiederci a cosa diciamo sì troviamo il vuoto pneumatico.
Un grande, gigantesco, mostruoso NO domina le nostre esistenze a ritmi serrati, a piccole dosi e nelle grandi delusioni, in casa o fuori, dall'alba al tramonto.
Usciamo la mattina con tanti bei no caricati accuratamente nella valigetta nelle borsette e negli zainetti, pronti da essere sparati contro tutti e contro tutto, e la sera gongoliamo, compiaciuti, al pensiero di quante belle negazioni abbiamo frapposto tra noi stessi e il resto del mondo.
Beppe Grillo, con i suoi gorgoglianti no stracaricati nel rossiniano crescendo del "vaffa" generalizzato e forcaiolo è l'idolo del momento. E mica è un caso....!
Ogni no ci consolida in noi stessi, contro gli altri, nella guerricciola quotidiana in cui spegnere la luce e l'aspettativa dell'altro con una bella negazione serve dannatamente e maledettamente a far brillare la propria infima fiammella un po' di più.
Nel buio funziona così.
In questo esercito dolente di bastian contrari cronici, di divette da supplicare, di illuminazioni a luci intermittenti, di lampi stroboscopici della negazione che ci paralizzano il volto in una smorfia fissa di delusione, adesso ci si è messo anche il Papa.
Per carità, povero Santo Vecchio, potessi, andrei lì a sostenerlo con la schiena ricurva, a dargli il mio sangue, le mie energie, le mie piccole insignificanti forze sino all'ultima goccia, senza risparmio.
Ma la speranza no, la speranza è Lui che ce la deve dare, perché Lui è l'incarnazione del «Sì».
L'Amore - quello con la maiuscola, quello di cui abbiamo bisogno come l'aria che respiriamo, quello che ci dice che siamo accettati e degni di esistere, sin dalla nascita - non si nutre di no, si nutre di sì.
E' affermativo non è negativo, è accettazione, non rifiuto.
Già me l'immagino l'obiezione di certuni, i bastian contrari d'occasione, a saldo, appunto: ma come, proprio il Papa, proprio la Chiesa che brandisce i suoi no contro il «progresso democratico», contro il matrimonio gay, contro l'eugenetica fisica e psicologica degli "uomininuovi", contro la repressione della libertà religiosa, di quella educativa e di pensiero, contro il sacerdozio femminile e le papesse.
I no del Pontefice all'adozione per gli omosessuali, dicono quelli: non è forse la negazione di una gioia, la delusione di un'aspettativa, l'ostacolo ad un progresso umano?
Poveri, insulsi, patetici e burocratizzati bastian contrari della buona tradizione e della morale naturale.
Perché, forse che i no di vostro padre - gli vorrei dire - hanno ostacolato il vostro progresso umano? o non l'hanno piuttosto agevolato? hanno impedito la vostra crescita o l'hanno resa possibile? forse che se non avesse vigilato su di voi, con le sue correzioni i suoi insegnamenti e le sue regole, non vi sareste sentiti abbandonati? voi che straparlate di politiche educative per il mondo, che cosa siete se non il risultato dell'educazione amorevole e attenta di chi vi ha messo al mondo?
Perché è un «Sì» che c'ha messo al mondo, è un «Sì» che ci ha accolto con un sorriso ed è lo stesso «Sì» che ci ha accompagnato con il suo sguardo amorevole anche quando diceva no, per educarci.
Senza quel sì non esisterebbe nulla perché non ci sarebbe incontro, relazione, rapporto, vicinanza e amore; senza quel sì non potremmo amministrare alcun no.
Non era un sì condizionato, relativo, a maggioranza qualificata e per alzata di mano, quello che leggevamo negli occhi di chi ci ha voluto bene; era un sì assoluto, che è quello di cui parla il Santo Padre, che è quello che Lui rappresenta(va).
Poi, intendiamoci, sarei l'ultimo degli ultimi a poter parlare di certe cose.
Non sono un buon cristiano, non frequento la mia Chiesa da anni, sono uno di quei cattolici che si definisce «non praticante» per non ammettere che i vincoli di un'osservanza religiosa li sente stretti, e che normalmente utilizza pochissimo termini come amore, speranza, conforto.
Ma credo di non essere troppo indulgente con me stesso se dico che essere cattolici in questo modo - che è poi il modo generale, della maggioranza - è come essere figli: sbuffi per i richiami, ti sottrai alle regole che puoi eludere, alzi le spalle per le sgridate e tiri fuori anche i tuoi no e le tue ribellioni.
Ma confidi che la tua Santa Chiesa Romana - come i tuoi genitori - stia sempre lì, con il suo sì rassicurante e inamovibile, che ti segua da lontano pronta a riaccoglierti in qualunque momento, che il suo sì non venga mai meno.
Il Papa è scomodo come può esserlo un genitore.
Gli diciamo no ma sappiamo che Lui, nella grandezza misteriosa della sua funzione, ci risponderà sempre, e sempre con quel «Sì» di sempre.
Era la nostra certezza, sino all'altro giorno, sino a quel «No» che forse cambierà molte cose.

Continua: "Lo spirito del no"