Credo non siano in molti a sapere che quel grande movimento di idee politicamente rivoluzionarie, di stravolgimento della vita familiare e di sovvertimento dell'esperienza "amorosa" che passa sotto il nome generico di femminismo è, in realtà, un coacervo di posizioni ideologiche in sistematica contraddizione l'una con l'altra, non avendo mai raggiunto una base comune interpretativa che non fosse un'indistinta (e, molto spesso, rancorosa) ostilità preconcetta verso il maschile.
La misandria, appunto, rimane l'unico elemento in comune - oltre al vittimismo sistemico che ne costituisce il corollario imprescindibile - tra quelli che sono stati definiti, non a caso, "i femminismi" piuttosto che il femminismo al singolare, mentre l'impalcatura ideologica di questa o quella frazione del movimento si contrae tra rivendicazioni miranti all'uguaglianza sostanziale tra i sessi ed altre, viceversa, miranti all'affermazione della "differenza sessuale"; ossia, una posizione ed il suo esatto contrario, accomunate solo dalla smania rivendicativa.
Prendiamo ancora ad esempio le posizioni dei femminismi sulla sessualità, sulle libertà sessuali e sulle sue deformazioni.
A fronte delle isteriche battaglie antipornografia dell'americana A. Dworkin - ad esempio - ha fatto da stupefacente contraltare il femminismo pornografico della famosa Annabel Chong, capace di copulare pubblicamente con oltre duecento uomini in una sola sessione, per testimoniare la riduzione dell'uomo ad oggetto liberamente intercambiabile, in una sorta di sprezzante nemesi vendicativa postdatata del mito "donna oggetto" di memoria sessantottina.
In effetti, a tutt'oggi, dopo decenni di roboanti esternazioni del femminile in tutte le salse e nel loro esatto contrario, ancora non si capisce bene se il perdurante rivendicazionismo voglia andare in una direzione o in quella opposta; se l'aspirazione politico-sociale sia quella di vedere riconosciuti i valori specifici della femminilità o se, al contrario, consista nella negazione dei caratteri sessuali, maschili e femminili, in vista della realizzazione di una società androgina asessuata dai ruoli perfettamente intercambiabili.
L'unica cosa certa è che tutte o quasi le femministe conclamate sembrano perennemente "sull'orlo di una crisi di nervi", condizione psicologica nella quale la "sorellanza" isterica trova spazio comune e condivisione totale, benché vissuta in forme concettuali diametralmente opposte e in un'assurda antitesi di significati e di implicazioni conseguenti.
Fatto sta che ad aggiungere confusione al kaos concettuale delle filosofie femministe ci si mette, oggi, anche il tentativo di accaparramento del brand ideologico pro-female anche da parte della destra.
"Il femminismo può essere di destra?" - si chiede M.L. Agnese sul Corriere del 17 luglio, lasciando, in qualche modo, l'interrogativo aperto a più risposte di merito ma evidenziando ciò che noi, abituati alle alessandremussolini ed alle danielesantanché nostrane, avevamo ormai capito da tempo.
E cioè che il femminismo è solo un grande calderone di pulsioni emotive antagoniste all'uomo, che mentre per un verso spinge molte a scimmiottarne i modi ed i comportamenti mettendosi in competizione aperta e ostile al "maschio", per l'altro verso ne spinge altrettante a dichiarare esigenze esclusive e privilegiate, dall'alto di sussiegosi tacchi a spillo, in una differenziazione antropologica che sa di razzismo sprezzante; e spesso le une si sovrappongono e si identificano con le altre, in una contraddittoria sarabanda di senso e di direzione di marcia.
L'ibrido femminile che ne viene fuori - la "femmina guerriero" mascolinizzata accanto al divismo rosa shocking, frivolo e ultraseduttivo - è testimonianza di una caotica ricerca di sé stesse, nella vita affettiva, in quella familiare e nella stessa dimensione politica, che si consuma, con il proprio gravoso carico di contraddizioni irrisolte, su spalle maschili incurvate, ormai, sino a terra.